Per una volta sono d’accordo con la Mannoia: sarebbe il caso che sul tema del femminicidio parlassero gli uomini. Non è uno scherzo, in effetti, perché a ben vedere gli scivoloni imbarazzanti (vedi l’ultimo di Barbara Palombelli) e la narrazione che viene fatta con le relative variazioni sul tema in cui si relega il maschio ad un ruolo avvilente che sta esattamente fra l’animale in astinenza ed il maniaco sessuale con tendenze omicide, non mi sembra si stiano producendo delle soluzioni.
Il ritratto del maschio privo anche del più rudimentale freno inibitorio e schiavo dei propri istinti più bassi, certamente, può andar bene per una ricostruzione delle cose in stile Murgia, nemica giurata di tutto ciò che è maschile, o forse può essere funzionale alle tesi da quota rosa estreme della botulinosa Gruber, la quale pare aver dimenticato che i ruoli di responsabilità non si acquisiscono in virtù dei
propri genitali, ma sulla base di competenza e professionalità.
Resta, tuttavia, l’impressione di un gigantesco e macabro equivoco, dove una liturgia politicamente addomesticata celebra il rito della messa cantata ad
ogni nuovo delitto ed una congrega di demagoghi spreca parole e slogan senza capire che alla fine di questa strada c’è solo una montagna di parole inutili ed una società malata cronica.
Innanzi tutto, rendiamoci conto che non esiste una sola seria ragione che ci possa indurre a ritenere l’omicidio di una donna più grave ed efferato dell’omicidio di un vecchio o di un bambino: il progresso, infatti, non consiste nel costruire tabelle e classifiche sul grado di infamia di una azione riprovevole, ma dall’acquisire e consolidare il concetto che l’omicidio del forte sul debole, la forma estrema della prevaricazione che sovverte le regole del diritto naturale e del civile convivere, è sempre e comunque da condannare e non ha e non può avere attenuanti.
Parlare di femminicidio, perciò, può avere ed ha un senso solo se affrontiamo il problema sotto il doveroso della prevenzione, quantunque il compito sia spesso molto arduo proprio perché molti episodi si consumano dietro al paravento delle mura di casa, ma proprio per questo l’argomento esige parole chiare e soprattutto pensieri limpidi: non c’è e non ci può essere spazio per le strumentalizzazioni politiche o per le crociate da prendere in appalto per dimostrare che si ha
qualcosa da fare (Murgia docet), ma soprattutto ci deve essere piena consapevolezza che se qualcuno pretende di giocare a “maschi contro femmine” non si va da nessuna parte. Nè vale la farfugliante teoria di una Barbara Palombelli qualunque, incerta tanto nella formulazione quanto nella ritrattazione di concetti traballanti quanto i suoi ascolti, perché alla fine quello a cui assistiamo è solo una noiosa e logora sagra dell’ovvio in cui politici, giornalisti ed opinionisti delle idee altrui si sfidano parlando di una realtà che per lo più non conoscono e rispetto alla quale non sono neppure troppo interessati.
Meglio, pertanto, rifugiarsi dietro al luogo comune della bella e della bestia, consegnando all’immaginario collettivo, notoriamente morboso e ipocrita, l’idea di una donna emancipata ed in perenne liberazione rispetto ai propri costumi, ma vessata e circondata da scimmioni con la bava alla bocca pronti a scatenarsi alla minima esibizione di un centimetro di pelle di troppo.
Onestamente, anche basta. Basta, perché questo modo di ricostruire e raccontare
la realtà non ha salvato una sola vita umana né potrà fare di meglio in futuro, come qualsiasi persona intelligente può facilmente intuire.
Basterebbe, tuttavia, fare mente locale ai fatti e cominciare ad analizzarli freddamente i dati per comprendere che molto spesso, a tradire una donna, non
sono le attenzioni morbose di un branco di disastrati sotto tempesta ormonale, ma la sua ostinata volontà di salvare quel partner che pareva un bel tenebroso e che invece si sta rivelando come un individuo patologicamente possessivo, sadico e violento fino alle estreme conseguenze.
In pratica, a tradire le donne sono assai spesso le donne stesse, Barbara Palombelli ce ne ha fornito un validissimo esempio. E allora, forse, sarebbe davvero il caso che a parlare dei femminicidi fossero gli uomini, quelli che non hanno nulla a che vedere con il ritratto bestiale, a metà fra le teorie lombrosiane e l’uomo di Neanderthal, che certe maestrine dalla penna rossa si divertono a disegnare per intestarsi una battaglia di civiltà troppo più grande di loro.
Stefano Del Giudice