Cultura

Non voglio perderti Léon

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Scritto da Irene Pagnini

Ho trovato interessante riflettere a proposito del film Léon. Un film dalla tematica attualissima, anche se è un film che ha i suoi anni.

Nel film Léon – The Professional l’attrazione tra i due protagonisti Mathilda (Natalie Portman) e Léon (Jean Reno) è reciproca, ed è anzi la ragazzina che prende l’iniziativa nei confronti di un esitante sicario: è proprio lei che cerca di rendersi interessante ai suoi occhi, in un certo senso di sedurlo, sia pure con la molto parziale consapevolezza di ciò, e di ciò che le sta succedendo, come normale in una ragazzina al primo impatto con la pubertà, che sente che le sta succedendo qualcosa, che però, ormai non più ragazzina ma ancora solo progetto di donna, non riesce ancora a decodificare.

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Mathilda (Natalie Portman) e Léon (Jean Reno) nel film Léon – The Professional

In altri contesti sarebbe stata la prima cotta di una ragazzina, magari per un suo professore, che però, nel contesto del film, è un professore molto particolare, un killer, e la situazione estrema rende tutto più evidente. Ma anche l’adulto Léon è confuso di fronte a ciò che gli sta accadendo, fatica a decodificarlo (come succede al professore che sente che una sua giovanissima allieva sta sorprendentemente conoscendo i primi impulsi della pubertà attraverso la cotta per lui, e sente anche, altrettanto sorpreso, di essere a sua volta attratto).

La materia scelta da Besson per il film era di quelle pericolosamente toste, il rapporto tra i due era difficile da maneggiare nel film senza scadere nel pruriginoso, ma sicuramente l’atmosfera elettrica – senza inutili censure, francamente la storia di reciproco innamoramento – tra i due che è il vero tema del film (la trama da crime-story ne è solo la cornice), il regista tratta la materia (nulla di scandaloso che un film ne tratti, come potrebbe trattare qualsiasi altro tipo di rapporto umano effettivamente riscontrabile nel mondo reale) riuscendo a fermarsi, e fermando i due protagonisti, un gradino prima della pruriginosità.

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Se alcuni ci hanno ricamato sopra, dimenticando che si trattava di un film e di due attori che impersonavano personaggi (entrambi in maniera eccellente, ma comunque sempre di parti scritte nel copione trattavasi), ma che non per questo nella loro vita reale erano quei personaggi pur da loro così mirabilmente incarnati sulla scena, riuscendo a rendere perfettamente di entrambi le incerte consapevolezze di quella elettricità reciproca che stavano con loro sorpresa scoprendo, vivendo e cercando di gestire, sono quei ‘ricamatori’ inopportuni i responsabili di quel passo avanti nella pruriginosità nel quale invece il film in sé non cade, riuscendo a restare sulla soglia appena precedente quel passo.

E sono loro che devono chiederne scusa alla Portman, ovviamente, data l’età, molto più vulnerabile di Reno di fronte a quei ricami pruriginosi, non certo il regista né lo spettatore (io stesso, ad esempio, vedendo e rivedendo più volte il film, sono perfettamente consapevole di esser sempre entrato in quella elettricità reciproca tra i due personaggi, e di esserne rimasto fortemente coinvolto, ma, mentre vedevo il film e poi dopo esser uscito dal cinema o aver spento la TV, ho sempre mantenuto piena consapevolezza che di film e di personaggi trattavasi, con cui nulla avevano a che fare gli attori che pur li avevano mirabilmente rappresentati sul set).

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È possibilissimo che una giovanissima Natalie Portman sia rimasta ‘toccata’ nel suo intimo, oltre che dai ricami pruriginosi post film che magari facevano della sua persona una ninfetta seduttrice di uomini adulti o altre scemenze del genere, anche dalla partecipazione al film in sé, a scene e situazioni che, per quanto finte, di copione, erano comunque toste, rivelandole una realtà presumibilmente a lei fino ad allora sconosciuta nella sua vita reale.

Ma qui tocca decidersi.

Un film con parti impersonate da bambini o subadulti può essere interpretato solo da attori di quella stessa età, non possiamo mica affidare quelle parti ad adulti (che ne so, nani?) truccati da bimbi o ragazzini. O si fanno film con minori solo in stile disneyano, con parti in cui i piccoli attori impersonino loro coetanei che vivono tra balocchi e coccole, oppure prendiamo atto che nella realtà non è sempre così (ed il cinema non può ignorare la realtà), ed accettiamo il rischio che giovanissimi attori siano ‘toccati’ dalle situazioni che recitano sul set. Se vogliamo fare, ad esempio, un film su ragazzini maltrattati dai genitori o bulllizzati da coetanei, dobbiamo mettere in scena situazioni che, per quanto finte, si avvicinino il più possibile alla realtà tosta che vogliono rappresentare, e quindi dobbiamo accettare il rischio di esporre il giovane attore, sia pure con tutte le cautele possibili, a situazioni che, nella sua vita reale, non aveva mai conosciuto e di cui magari neanche sospettava l’esistenza. Ma, ripeto, o si fa così, o si rinuncia a girare film realistici su bambini, ragazzini ed adolescenti, limitandosi a film mielosi totalmente inutili.

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Tornando allo specifico del film in oggetto, i rapporti sentimentali tra adulti e subadulti, persone che non sono più ragazzini ma non sono ancora uomini o donne, nella realtà esistono, quindi il cinema non può autocensurarsi ignorandoli, ma anzi ha tutto il diritto di indagarne i particolarissimi coinvolgimenti emotivi di cui sono, più o meno consapevolmente, portatori i protagonisti di quelle storie. E Besson in quel film lo fa, è quello il vero tema del film, l’innamoramento tra un adulto ed una ragazzina quasi donna (ma poteva essere anche tra un’adulta ed un ragazzino quasi uomo), la crime-story è solo un pretesto narrativo in cui inserire quella particolarissima storia d’amore. So che è difficile farlo senza scadere nel morboso, e ci vuole comunque coraggio per affrontare certi temi, ma, a mio parere, in quel film Besson ci riesce benissimo, per cui non condivido accuse di morbosità rivolte al film.

A presto, Irene Pagnini

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