E’ noto che noi italiani abbiamo il vizio dell’ipocrisia e certe vicende sembrano fatte a sommo studio per dimostrarlo. Un esempio? La sentenza di condanna di quel Rudy Guedè, di cui tutti improvvisamente si sono ricordati a causa della recente scarcerazione, e che ha scontato una pena per concorso in omicidio con qualcuno che la giustizia non ha identificato ed ha deciso di non identificare.
Sul processo di Perugia, che doveva stabilire la verità sull’omicidio efferato di una giovane studentessa, Meredith Kercher, si è detto di tutto e di peggio: molti si sono chiesti se l’esito del processo sarebbe stato lo stesso senza l’intervento del segretario di Stato Usa pro tempore Hillary Clinton e molti altri si sono chiesti se il super avvocato americano, chiamato in soccorso dell’imputata Amanda Knox per demolire l’impianto accusatorio della Procura, non abbia avuto gioco troppo facile nello smontare una requisitoria apparsa molto presto come un processo alle intenzioni per essere costruita più su tesi criminologiche che su prove oggettive.

Di lui, del ragazzo nero adottato e tuttavia non redento, la mela marcia capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato, si sono dimenticati in fretta, così come di quel Patrick Lumumba, ingiustamente sospettato a causa delle calunnie della Knox e poi scagionato ma non riabilitato: uno, Rudy Guedè, continua a proclamarsi innocente, ma chiede di essere dimenticato, probabilmente sapendo benissimo che una sua eventuale assoluzione non conveniva e non converrebbe ancora oggi a nessuno, laddove vi fossero anche gli estremi per la revisione del processo; l’altro, che dopo le calunnie e l’ingiusta gogna mediatica ha perso il pub che gestiva e lavora in qualche angolo di mondo con le pezze al culo, non riesce ancora a capacitarsi del fatto di aver scontato a suo modo una pena occulta per un reato mai commesso.
Alla fine, insomma, resta l’amaro in bocca di una verità negata e, forse, neppure cercata fino in fondo: d’accordo, non ci si può accontentare di un processo indiziario, ma se l’attività investigativa non fosse ormai confinata quasi esclusivamente nell’esame delle prove biologiche, se si facesse meno spettacolo mediatico e più ricerca dei fatti, forse quella verità poteva essere trovata.
La sensazione, insomma, è che in questa storia la maggior parte delle responsabilità non siano ricadute sulle persone giuste e forse non è neppure un caso se alla fine i danni maggiori, vittima a parte, sono ricaduti nell’area della minoranza etnica, mai così utile alla causa della confezione di un polpettone giudiziario tanto mal cucinato quanto indigesto: in fondo, è più facile battersi il petto e chiedere scusa per un episodio di razzismo che ammettere che il nostro sistema processuale non ha nulla a che fare con Perry Mason.
Al massimo, con la famiglia Addams
