Cultura

Quirinal tango

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Mattarella, ormai in scadenza di mandato, se ne va per teatri e concerti. Ha l’aria di un impiegato di Stato ad una settimana dalla pensione, con lo sguardo riscaldato dalla speranza di una liberazione prossima ventura e dalla fine di un percorso ormai divenuto troppo pesante. Sarebbe tutto semplice e sereno, con quella lieve malinconia tutta siciliana che scorre da Pirandello a Franco Battiato, se non fosse per le richieste di bis che gli arrivano da platee e loggioni quasi fosse Placido Domingo.

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A lui, a Mattarella, tutto ciò non piace. Soprattutto, a Mattarella, non piace doversi astenere dallo spiegare le ragioni di un rifiuto netto e non negoziabile perché certe cose non possono essere spiegate in pubblico: infatti, non è semplice negarsi pur sapendo di essere il male minore.

Ma tant’è: il popolo italiano, che sarebbe disposto a tenersi ad oltranza questo Presidente quasi privo di muscoli facciali che incarna alla perfezione l’idea del grigio che sta bene su tutto, dovrà accettare le alternative e soprattutto ingoiare il rospo delle possibili conseguenze. Del resto, abbiamo capito che una elezione di Draghi starebbe semplicemente ad indicare una precisa linea di tendenza, ovvero che il commissariamento del Paese trasloca da Palazzo Chigi al Quirinale e che l’Italia si avvia ad un modello di presidenzialismo mild hybrid. L’ipotetico rilancio di figure scongelate dal vecchio mondo della politica nostrana, come il trasformista Casini o il cartonato di quello che fu Giuliano Amato, incarnerebbero invece il tentativo di far sopravvivere linguaggi e liturgie di un mondo che ormai è morto da qualche anno ma non se ne vuole ancora accorgere.

Ecco perché alla fine resta lui, l’impresentabile per eccellenza, il Silvione Nazionale mille volte morto e mille volte risorto, cui in caso di disperazione darebbero il via libera persino il PD e gli eurocrati del mondo post Merkel: hai voglia a ricicciare olgettine e cene eleganti, hai voglia a citare Gheddafi, Moubarak con la “nipote” ed il Bunga Bunga, perché alla fine, come nelle vecchie case contadine, del maiale non si butta via nulla e men che meno in caso di bisogno. Perché, se non lo avete capito, per fare il presidenzialismo, per quanto occultato da bugie e supercazzole, serve una riforma costituzionale e soprattutto serve un politico vero che abbia il coraggio e lo stomaco di affondare le mani nel mare di merda che tutto questo comporta.

Questa, insomma, sarebbe una validissima ragione per perdonare tutto, ma proprio tutto, al piccoletto di Arcore, cui resterebbe, come ultima gratificazione, solo il passo finale di far dichiarare la propria morte salvo ricomparire dopo tre giorni. Nei suoi panni, dopo tutto quello che ha passato, sinceramente io lo farei.

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Ma la scalata al Quirinale, si sa, è una battaglia sottile e nulla è detto fino all’ultimo istante: di solito, le candidature annunciate in anticipo sono quelle che si vogliono bruciare sull’altare dei giochi di corridoio e non sarebbe la prima volta che un favorito o presunto tale si trova fatto fuori come un Prodi qualunque. Non è un caso, poi, se l’enigmatico Nico Stumpo, ex dalemiano con il pallino della contabilità delle preferenze, ha recentemente dichiarato che sarà necessario un primo voto di prova, per capire in che direzione si dirigerà il blocco dei voti “peones”, con i post grillini ed i post centristi che pesano come mai prima d’ora.

E ancora non si è candidato nessun virologo: fossi Bassetti, un pensierino ce lo farei.

S. Del Giudice

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