Cultura

SanPa. L’inchiesta tossica.

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Personalmente, avrei preferito che il documentario SanPa, lo avesse realizzato un regista come Mel Gibson. Si, perché almeno l’autore di Apocalypto e della Passione di Cristo, oltre a regalarci sequenze feroci di giovani in astinenza fra catene, vomito ed escrementi, ci avrebbe raccontato una realtà indubbiamente cruda, ma almeno indipendente nelle valutazioni dei fatti.

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La serie prodotta da Netflix SanPa, sulla più celebre delle comunità di recupero dalle tossicodipendenze, viceversa, sembra più simile ad un meditato atto di accusa che non ad un documentario, concentrandosi in modo pressoché totale sulle ombre e le pagine oscure e relegando alla marginalità i risultati complessivi e le finalità dell’opera di Muccioli. Ma c’è di più: il coro dei giudizi lusinghieri su SanPa ha una chiara coloritura politica, totalmente a mi avviso orientato a sinistra, e suggerisce l’impressione di una operazione mediatica di “pulizia culturale” in cui ciò che conta non è la verità storica di San Patrignano, il senso della nascita e della crescita di una comunità che ancora oggi ospita circa 1200 persone, bensì la sua bocciatura alla luce delle acclarate difformità rispetto ai canoni di un “politicamente corretto” probabilmente pietoso e perbenista, ma praticamente lontano anni luce dalla realtà drammatica delle tossicodipendenze.

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Se il concetto non fosse chiaro, basterà rileggere il commento rilasciato dalla solita Michela Murgia su SanPa, della cui opinione si sente sempre più spesso la stringente necessità, che è arrivata in sostanza a negare implicitamente l’utilità di San Patrignano e del suo operato sostenendo che “chi si è salvato in quegli anni deliranti lo deve solo al caso.”

La sentenza, di fatto, è pronta e servita: condanna senza se e senza ma, perché il fine giustifica i mezzi per ammorbidire le responsabilità di un brigatista ma non per assolvere chi cercava in qualunque modo ed a qualunque prezzo di strappare dei giovani dall’eroina. La coerenza e l’onestà intellettuale prima di tutto, insomma.

Ma poi, se si vuole mettere in luce la verità, perché accreditare solo la narrazione di alcuni protagonisti e non di altri? Perché lasciare sotto traccia le storie dei tanti ragazzi salvati da Muccioli e dai suoi collaboratori e che oggi sono guarda caso i critici più accaniti dell’inchiesta prodotta da Netflix?  

Nessuno, fra l’altro, ha provato a leggere i fatti partendo dall’assunto di base, ovvero che San Patrignano nacque come una reazione verso il senso di impotenza che dilagava nella società italiana squassata dal cancro dell’eroina, il male che distruggeva l’esistenza e la dignità di migliaia di giovani e delle rispettive famiglie. Non esistevano risposte dello Stato, non esistevano protocolli medici su percorsi di recupero concretamente affidabili, ma soprattutto non esisteva una volontà condivisa di guardare in faccia il problema dal punto di vista di loro, dei ragazzi, troppo spesso svuotati della forza di volontà necessaria per uscire dal famigerato “tunnel”.

E qui, proprio qui, si innesta il lavoro di Muccioli: se a casa non riesci a curarti e ci ricaschi, vieni in comunità, perché io pur di impedirti di iniettarti morte ti lego al letto e non ti lascio uscire. Io ti impedisco di rovinarti e per fare questo sono disposto a sostituirmi alla tua volontà devastata, almeno sino a quando non sarai abbastanza forte da stare lontano dal male con le tue gambe. E’ la storia di tanti, è la storia, per esempio, di Piero Villaggio che ha confessato di aver odiato a suo tempo Muccioli per i suoi metodi, ma che oggi lo difende e lo ringrazia affermando di dovergli la vita.

A San Patrignano è stata combattuta una guerra a mani nude, con le crudeltà e gli eccessi che inevitabilmente si incrostano in ogni conflitto, e questo non si può ignorare, esattamente come non si può buttare il lavoro fatto per salvare tante vite solo per gli errori e gli abusi di qualche collaboratore.

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Ma questo focus sulla verità storica, forse, non era ciò che gli autori della serie SanPa cercavano. Bisognava far finta di ignorare il disorientamento della società italiana di quel tempo, bisognava passare sopra alla disperazione di tante famiglie e bisognava far finta di credere ad una lotta “gentile” all’erosione della dignità dei ragazzi divorati dall’eroina e dall’AIDS.

Questo non significa, ovviamente, che a San Patrignano sia stato tutto giusto e perfetto, ma un conto è raccontare i fatti e gli inevitabili errori di chi si è sporcato le mani per salvare vite umane, altra cosa omologare l’intera storia della comunità sotto il segno dell’abuso e della violenza: troppo facile, alla fine, raccontare la storia di un dramma collettivo che riguarda qualcun altro dal salotto di casa o dallo studio biblioteca pieno zeppo di testi prestigiosi e titoli accademici.

Ma attenzione, caro, ipocrita e piagnucoloso radical chic: perché se tuo figlio, mentre sdottoravi con il petto gonfio di docenze universitarie e tessere politiche tutte a sinistra, si fosse iniettato eroina accasciato dietro ai cassonetti dell’immondizia, anche tu, sentendoti inerme, lo avresti portato a San Patrignano e forse, ma il forse è solo una clausola di stile, anche tu avresti chiesto a Muccioli di salvarlo a qualsiasi costo, con qualunque mezzo.

Nessuna meraviglia, dunque, se certa sinistra prova oggi a fare il bidet alla propria coscienza, glissando sul disastro sociale della crisi della famiglia favorito da modelli culturali “deboli “e da una destrutturazione progressiva del sistema educativo. Quello che dà fastidio, ma parecchio, è che poi pretenda che noialtri ci beviamo l’acqua sporca.

Stefano Del Giudice

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