Cultura

La festa soppressa dell’Unità Nazionale che non c’è

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Il 4 Novembre non si andava a scuola. Non sapevo perché, ma andava bene così. Poi ci dissero che in Italia si facevano troppe feste, che bisognava passare più tempo nei luoghi di studio e di lavoro, ed il 4 Novembre passò in cavalleria. Un giorno come tanti. Oggi, leggendo sul calendario, apprendo che il 4 si festeggia San Carlo Borromeo, mentre Google mi dice che è la giornata delle Forze Armate e dell’Unità Nazionale.

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Già, l’unità Nazionale. Il concetto è semplice, lineare, eppure per noi italiani stranamente scivoloso e divisivo: aleggia leggero fra le frasi austere di un Presidente in grigio, eletto dal sistema dei parlamentari nominati partiti e non dal popolo, incombe sinistro quando il Governo chiede sacrifici, ma si tiene prudentemente sullo sfondo quando l’establishment ricorda che il Paese ha come priorità gli impegni internazionali assunti con l’Europa. E’ chiaro che evocare l’unità nazionale al di fuori di questo ristretto binario concettuale è roba da trogloditi sovranisti o, peggio ancora, da fascisti. Tuttavia ritengo che questo dibattito sia l’ennesima supercazzola prematurata messa lì per riempire di inutili luoghi comuni il vuoto assoluto del nostro esistere collettivo.

Questo è un popolo che si ritiene tale, cioè unito e coeso, solo quando vinciamo i mondiali o gli europei di calcio: solo se vinciamo, però, perché se tanto tanto si perde o anche solo si pareggia siamo subito pronti a dividerci in cinquanta milioni di commentatori e commissari tecnici, ovvero in cinquanta milioni di singoli. Passando dal faceto al serio, tuttavia, resta il problema storico di un Paese che è unito a parole ma non nei fatti, fondamentalmente perché non ha avuto il coraggio di affrontare e risolvere lo scoglio di una guerra civile che ha chiuso in modo anomalo un conflitto mondiale di ferocia inaudita. La pentola carica d’odio messo a bollire, scoperchiata dal coraggio di Giampaolo Pansa e dai suoi riferimenti sul sangue dei vinti (che è anche il titolo di uno dei suoi libri più scomodi), ci regala in ogni occasione possibile scampoli di violenza verbale e fisica bipartisan, in cui i furori dei complottisti e dei no vax si alternano con le nostalgie per piazzale Loreto (anche se poi per il mainstream gli odiatori sono solo i destrorsi razzisti ed omofobi). Tutto questo mentre la mia memoria ricorda bene i “10, 100, 1000 Nassiriya” di chi sfogava la propria rabbia su dei militari inviati nel posto sbagliato, ma solo per l’ipocrisia di una classe politica che spacciò per missione di pace una operazione di guerra decisa altrove. I ragazzi in divisa che sono morti là, alla fine, facevano solo il loro dovere ed hanno pagato il prezzo di errori altrui. Sarebbe giusto tenerlo a mente. Alla fine, la colpa è nostra, ovvero della nostra classe politica incapace di intraprendere un percorso, magari duro ma necessario, verso un pacificazione sociale degna di questo nome. Ma del resto non c’è da stupirsi, visto che ancora non siamo riusciti a pacificare nord e sud: siamo così emancipati e progressisti che ci indigniamo per i cori razzisti ai calciatori neri (che ovviamente non definiamo “negri” anche se il significato è il solito), mentre i canti di incitamento a cataclismi e vulcani inattivi (il ben noto coretto “Vesuvio riprovaci”) vengono relegati ad un livello minore e quindi archiviati, quasi fosse una goliardata da vitelloni sbronzi. Si, perché le offese ai neri sono razzismo, quelle ai terroni mera “discriminazione territoriale” (giuro, una volta ho letto proprio questa definizione!), mentre l’unica cosa certa è l’ipocrisia con cui tentiamo goffamente di nascondere che fra noi non siamo e non saremo mai veramente uniti, almeno fino a quando non ci guarderemo allo specchio e non avremo il coraggio di comprendere che i buoni ed i cattivi non stanno in due settori distinti, ma sono ben mescolati ed amalgamati.

Perché coloro che devastano questo Paese irrisolto, in ogni caso, sono i nostri figli e non sono né un velo di ipocrisia né una festività soppressa che cambieranno le cose. E come gli scolaretti del bel tempo antico e come il compianto Mario Marenco, chiudo nell’unico modo possibile: W l’Italia!

Stefano Del Giudice

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