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Pink Floyd a Pompei: mezzo secolo di musica nei secoli di storia

pink floid live
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Scritto da Cinzia Silvestri

Confesso che “Reliving at Pompeii” (con due i, non è un errore) me lo sono perso, forse volutamente perso. Pochi giorni or sono, esattamente il 28 ottobre, in esclusiva gratuita live streaming su ITsART – la piattaforma digitale promossa dal MiC, dedicata all’arte e alla cultura italiana – è stato trasmesso il docufilm in diretta dall’Anfiteatro in una modalità descritta nel comunicato ufficiale come immersiva e digitale: “A 50 anni dalle riprese del film-concerto ‘Pink Floyd: Live at Pompeii’ diretto da Adrian Maben, che vide la storica band inglese esibirsi nel 1971 all’Anfiteatro di Pompei in un memorabile concerto a porte chiuse, il Parco archeologico di Pompei e il Gruppo TIM inaugurano una partnership per valorizzare ulteriormente un patrimonio unico al mondo, attraverso l’adozione di tecnologie digitali”.

pink floid pompei

Ci sta che la fruibilità torni sotto forma di strenna natalizia targata TIM, sinceramente la visione del teaser m’è parsa una furbata per certi versi urtante. In magna pompa e altrimenti non poteva essere, l’iniziativa è stata illustrata all’Auditorium di Pompei alla presenza di Gabriel Zuchtriegel, Direttore del Parco Archeologico di Pompei, di Carmine Lo Sapio, Sindaco della Città di Pompei, di Claudio Pellegrini, responsabile Sales Local Government, Health & Education di TIM, del giornalista Ernesto Assante e di Adrian Maben, regista della prima versione datata 1971, di una seconda uscita nel 1973/74 e un’altra ancora in DVD nel 2003.

Ripercorro, sbirciando nei siti (che per correttezza cito, Onda Musicale e Rolling Stone), la storia di quel concerto che si lega al mio vissuto personale (che ovviamente non interessa i lettori) ma intrigherà forse gli over 60, vaccinati e non contro il Covid, perchè se il vaccino divide le note sul pentagramma uniscono pure se un genere musicale garba poco. Io appartengo alla generazione della ‘Second version’ che fu trasmessa anche in tivù dalla Rai, negli anni ‘70 i mezzi audiovisivi non erano certo quelli di oggi. Io ero già folgorata da “The dark side of the moon”, il più celebre ellepì del gruppo ma non il più bello e cominciavo ad apprezzare i dischi precedenti “Ummagumma” e “Meddle”. Ero una liceale con un livello musicale basico: cantautori italiani, Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Deep Purple. Punto. I Pink Floyd mi fecero scoprire un mondo fino ad allora sconosciuto, mi fecero pure innamorare e pure crescere. Oggi come allora resto basita se qualcuno candidamente dichiara di non apprezzarli, i Pink Floyd: mi sembra impossibile.

Sono una pietra miliare del rock? Lo sono anche senza la follia creativa di Syd Barrett? Io non posso dirlo, ma sono sicuramente testata d’angolo della mia educazione musicale, accanto a Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini, pur facendo le debite distinzioni.

Quando vedo le interviste di oggi a David Gilmour, un apparente posa-piano milionario, un po’ imbolsito, provo tenerezza: non riesco ad essere severa, come invece lo è stato il tempo trascorso, aggiungendo pancetta e doppio mento, che mancano a Mick Jagger e Sting per esempio. Me lo rivedo nell’Anfiteatro di Pompei a torso nudo, coi capelloni lunghi, con quell’espressione a Cicciobello-tutto-morbido, il bambolotto iconico (si dice così, no?) della mia infanzia. Per trovarci qualcosa di sexy, dovrei chiudere gli occhi e immaginare qualcun altro a suonare la chitarra. Ricky Portera per esempio, che mi incantò nel video “Ciao” di Lucio Dalla (e si capisce perché gli dedicò il brano Grande figlio di puttana). Quell’erotismo sottile formato da un fisico attraente completato dallo strumento musicale, che per tanto tempo ha posseduto anche Ligabue, trascurabilissimo e sopravvalutato rockettaro al Lambrusco, al quale le fans lanciavano gli slip durante i concerti. La cosa era per me francamente inconcepibile, poi mi capitò negli anni ‘90, se non erro, di essere presente durante un check sound al Pistoia Blues dove lui avrebbe tenuto un concerto la sera. Io in realtà stavo lavorando nell’aula penale del Tribunale che si affaccia sulla piazza in cui si tengono le esibizioni. In attesa che le casse facessero tremare i vetri del Palazzo e il Presidente del Tribunale decidesse di sospendere o meno l’udienza, mi affacciai e vidi un uomo vestito di nero, all’epoca ancora coi capelli corvini, girellare sul palco. Era lui, il Liga: muto, parlava la presenza e compresi il lancio di mutande. Ergo, povero Dave con le ciccine bianche e tenere da protezione 50+ made in England! Però, ragazzi miei, quando tra quelle rovine spoglie e senza pubblico, Maben sulle riprese indugia nel brano “Echoes” (che fa parte della mia playlist in auto) verso le terga del mitico chitarrista ed alle sue dita che suonano la chitarra, davvero vengono i brividi che si mantengono anche quando inquadra nello sfondo le antiche rovine e in primo piano le casse con la scritta Pink Floyd London.

London, swinging London, non c’è nulla da fare, ha un’altra fascinazione, ti proietta in esperienze musicali mistiche, pensi al Wembley Stadium e rivedi un’epopea forse irripetibile.

Su come si arrivò al film concerto è riportato in maniera pressoché unanime in diversi siti musicali e non: Adrian Maben, regista scozzese, poi naturalizzato francese, è un trentenne che nel 1971 aveva contattato il manager del gruppo Steve O’Rourke, perché lo intrigava l’idea di mescolare la musica dei Pink Floyd con opere di artisti contemporanei come De Chirico, Magritte ecc., ma la band aveva declinato l’offerta.

I Pink Floyd in precedenza avevano già bazzicato il mondo del cinema, elaborando le colonne sonore per “More” e “La Vallée” di Barbet Schroeder, collaborando con Michelangelo Antonioni per la musica di “Zabriskie Point”, ed eseguendo alcuni lavori per documentari spesso a tema spaziale. Ma come si giunse a Pompei? Nell’estate 1971, il regista Maben si recò in vacanza in Italia e, nel tentativo di ritrovare il proprio passaporto forse smarrito durante una visita alle rovine di Pompei, tornò al tramonto nell’antico Anfiteatro romano. La visione del luogo lo fulminò a tal punto da ritenerlo sito ideale per filmare la band, immaginando i Pink Floyd unici attori insieme agli strumenti, con l’anfiteatro rigorosamente vuoto, senza pubblico. Senza pubblico e senza Covid (a Napoli il vibrione colerico apparirà nel 1973, ma i no vax non erano stati ancora inventati). Maben ottenne dalla locale Soprintendenza il permesso di effettuare sei giorni di riprese nel sito archeologico campano, per l’occasione chiuso al pubblico, l’ottobre seguente e direi che già questo pare un miracolo. I Pink Floyd non vollero playback e imposero di eseguire i brani dal vivo: questo significò il trasporto via camion di tutta la loro attrezzatura da concerto, per i tempi avanzatissima, con un impianto per la registrazione a 24 tracce che garantisse la stessa qualità sonora dei loro lavori in studio. Erano ancora agli albori, ma di certo fu una cosa notevole: del resto, io rammento gli allestimenti (e relativi trucks) dei due concerti che vidi a Modena e a Livorno. Si resta atterriti, abbacinati, affascinati e quelle montagne di casse sembrano una sorta di Stonehenge che prende vita e vibrando ti fa vibrare avvolgendoti nella musica.

Si resta storditi, come con un bicchiere di troppo, una canna inaspettata, una botta in testa.

I concerti, quelli belli, che ti conservi i biglietti d’ingresso e la maglietta nera con il loro nome, qualcosa di completamente diverso da certi tour di taluni artisti nostrani più adeguati per una bella festa di compleanno con torta che non per vaste platee. Il concerto rock, gente, non è roba da Gigi D’Alessio o Jovanotti e lo dico col massimo rispetto, consapevole che dietro il partenopeo e il cortonese ci sono squadre di persone che ci campano e il lavoro esige rispetto, sempre. Però la musica, quella musica Pink Floyd è davvero un’altra cosa e vi suggerisco di andarvi a leggere Fabio Zuffanti su Rolling Stone “Chitarre cosmiche, un testo che anticipa le allucinazioni di ‘Dark Side’, passaggi visionari: per festeggiare i 50 anni del capolavoro di ‘Meddle’, ecco cinque versioni che ne certificano la grandezza”. Troverete in maniera forse fin troppo dettagliata, direi maniacale com’è giusto che sia quando si parla in modo serio di musica (io, mi pare chiaro, non ho le competenze per farlo, non è il mio mestiere e di certo non lo rubo ad altri), si sviscerano i perchè e i per come di quel film concerto che di Meddle fu anticipatore. All’epoca delle riprese a Pompei l’album Meddle, contenente i brani One of These Days e Echoes eseguiti nel film, non era ancora sul mercato sebbene il gruppo ne avesse già ultimato le registrazioni in agosto: fu pubblicato infatti il 30 ottobre negli Stati Uniti e il 5 novembre in Europa. Ed è stato quando Zuffanti rammenta i concerti dove “Echoes” è stato riproposto che ho avuto conferma di qualcosa che non volevo ammettere neanche a me stessa: nel concerto di Danzica, anno 2006 “si avverte la mancanza del tocco più imperfetto di un Mason e di un Waters. Qui c’è tanta perfezione, ma poco ‘sangue’.”, quello che secondo me, ma non voglio anticipare giudizi su qualcosa di sconosciuto, il “Reliving” sponsorizzato da TIM non può avere. Ci sarà sicuramente maggiore tecnologia, saranno stati investiti più quattrini (quelli che mancavano nel film del ‘71), ma il sangue, il pathos si coniugano in una operazione – anniversario ci saranno?

Riprendiamo comunque il filo della storia: la troupe, giunta a Pompei, s’accorse di non avere sufficiente energia elettrica per alimentare tutta l’attrezzatura. L’inconveniente fu risolto portando la corrente elettrica direttamente dal Municipio mediante un lunghissimo cavo che percorreva le strade della cittadina campana; tale circostanza ridusse i tempi di ripresa a soli quattro giorni, dal 4 al 7 Ottobre del 1971. Non ci fu dunque il tempo di registrare tutte le canzoni previste, con l’aggiunta di due parti della lunga suite di “Echoes”. Le scene girate per prime in ordine di tempo ritraevano i quattro musicisti aggirarsi fra i vapori della Solfatara di Pozzuoli; quindi, nell’Anfiteatro Romano la  band  eseguì  dal  vivo  la prima metà e il finale di Echoes, One of These Days, e A Saucerful of Secrets.

Maben ha rivelato successivamente che diverse bobine di pellicola andarono smarrite subito dopo le riprese: questo, fra l’altro, spiega perché il brano One of These Days include quasi esclusivamente inquadrature del batterista Nick Mason, il quale ha confermato la vicenda nella sua autobiografia del 2004.

Poiché il materiale girato in Campania non era su ciente per il film, Maben lo integrò in uno studio cinematografico, l’Europasonor di Parigi. Per preservare l’ambientazione alla base del film, le sessioni parigine furono poi montate con spezzoni delle sequenze girate a Pozzuoli, con immagini di repertorio tratte dall’archivio della Soprintendenza; parte di queste ultime furono anche proiettate alle spalle dei musicisti mentre suonavano. A Parigi Maben filmò Set the Controls for the Heart of the Sun, Careful with That Axe, Eugene, la sezione centrale di Echoes e, su richiesta del gruppo, il brano Mademoiselle Nobs, sorta di rifacimento strumentale di Seamus dall’album Meddle, in cui una femmina di Levriero russo chiamata appunto Nobs, di proprietà di una famiglia circense parigina amica del regista, “canta” un blues, accompagnata da Roger Waters alla chitarra e David Gilmour all’armonica, mentre il tastierista Rick Wright le porge il microfono e la tiene ferma. Oltre che per i dettagli tecnici già menzionati, le sequenze girate a Parigi sono distinguibili da quelle filmate in Italia per il fatto che Wright è senza barba e questo fa sorridere non poco, come quando nei peplum movie si notavano gli orologi al polso delle comparse vestite da centurioni oppure le “giraffe” coi microfoni di certe riprese cinematografiche in set interno giorno. Il montaggio della prima versione del film, della durata di circa un’ora, quindi corto assai, fu completato da Maben nel 1972 fra le mura di casa sua, poiché il regista aveva già sforato il budget.

“Pink Floyd – Live at Pompeii” fu presentato all’Edimburgh Film Festival nel giugno 1972, mentre la prima inglese del film, inizialmente prevista per il 25 novembre 1972 al Rainbow Theatre di Londra, fu all’ultimo momento bloccata dal gestore del teatro per ragioni burocratiche. La seconda versione (1973-74), quella che ho visto io all’epoca e che uscì nelle sale cinematografiche, nacque perchè Maben era preoccupato per la breve durata del film e chiese a Roger Waters il permesso di filmare il gruppo mentre lavorava a quello che poi sarebbe divenuto uno dei loro album più celebri: The Dark Side of the Moon. Il regista effettuò quindi le riprese negli studi della EMI ad Abbey Road, perché il gruppo era già in fase di mixaggio dell’album e di fatto si prestò appositamente per Maben a recitare le sequenze in cui appaiono sovraincidere sulle basi le loro parti strumentali, nessuna delle quali compare nella versione definitiva del disco.

La nuova versione del film, allungata a circa 80 minuti, uscì nell’agosto del 1974, The Dark Side of the Moon era già balzato in testa a tutte le principali classifiche mondiali proiettando i Pink Floyd verso un successo e una popolarità senza precedenti. Per me, acerba adolescente, erano irraggiungibili ma con la loro musica raggiungevo il nirvana.

Come scrive Andrea La Rovere, il live a Pompei divenne un vero e proprio cult per i fan. All’epoca i Pink Floyd “erano un po’ degli oggetti misteriosi a livello visivo. Non avevano un frontman di carisma e presenza scenica come i Led Zeppelin, i Deep Purple, gli Who o i Rolling Stones, e i loro live erano talmente imperniati su rivoluzionari effetti visivi e speciali da nascondere quasi i musicisti dagli sguardi del pubblico. La performance di Pompei mostra finalmente i quattro giovani protagonisti, con la qualità eccezionale del prodotto cinematografico e nello splendore della loro giovinezza” (vi suggerisco di leggervi il pezzo integrale di La Rovere sul web).

Trent’anni dopo l’uscita del film, Maben curò – per l’edizione in DVD – un’altra nuova versione del film, in cui furono inseriti elementi di computer grafica nel montaggio originale, oltre ai consueti “contenuti speciali” tra cui un’intervista allo stesso regista e la prima versione del film-concerto del 1971, visionabile separatamente. Nel 2016, la versione “Director’s Cut” fu inclusa nel cofanetto The Early Years 1965-1972, priva di Mademoiselle Nobs e dei filmati di Abbey Road e con la suite Echoes posta interamente in chiusura.

E dunque, arriviamo ai giorni nostri. Il 28 ottobre 2021, un’astuta operazione marketing-culturale sforna ‘Reliving at Pompeii’, docu – film inedito in 5 brevi episodi che, come recita testualmente il comunicato stampa, “ripercorre i momenti creativi del regista in un viaggio intimo dentro i luoghi del Parco Archeologico e della città di Pompei, per andare alle origini di quella intuizione concretizzata con il primo ciak del famoso film-concerto di cinquant’anni fa. Contenuti audiovisivi e multimediali di alta qualità, un allestimento scenografico contemporaneo e tecnologico d’avanguardia, intervallati da interventi e interviste (inter inter inter, che cacofonia letterale però! n.d.a.) condotte da Ernesto Assante, firma giornalistica storica ed esperto di musica, nonché della band, costituiranno l’evento della serata che ha la direzione artistica e creativa di Magister Art e quella tecnica di GSNET.

‘Reliving at Pompeii’ è stato realizzato con la regia di Luca Mazzieri, Magister Art, e la supervisione di Adrian Maben, che è ritornato per ripercorrere le tappe più significative del viaggio dei Pink Floyd a Pompei negli anni ’70. Alla narrazione filmica, audiovisiva, sonora e multimediale e a spezzoni del film originale, si aggiungono innovative soluzioni digitali rese disponibili dal Gruppo TIM, quali l’augmented reality, il light mapping dell’anfiteatro e la virtual reality, che consentiranno di vivere un’esperienza immersiva a tutto tondo da remoto.

Il Gruppo TIM, partner tecnologico esclusivo e promotore dell’evento insieme al Parco Archeologico di Pompei, ha reso possibile questa iniziativa grazie alla sua capacità di innovazione in molteplici ambiti di applicazione, quali piattaforme di ‘live streaming’ in AR, il 5G, l’IoT e il Cloud. Questo grazie anche alle competenze delle aziende del Gruppo come Olivetti l’IoT Digital Factory che ricopre anche il ruolo di Digital Payment Service Provider del Gruppo, e Noovle, la Cloud Company, propongono un evento per rivivere le atmosfere e la straordinarietà di un luogo unico qual è Pompei, in una modalità immersiva e digitale, da tutti fruibile.”

Mi son dunque persa il live streaming dell’evento: volutamente, incosciamente? Boh, non so rispondere. Poteva essere un bagno rilassante di giovinezza oppure una doccia fredda di nostalgia canaglia, canaglia sempre? E chi lo sa, non coinvolgiamo il cantante di Cellino. Di certo quando penso ai colori primari rosso, giallo, verde, blu e violetto (che poi Newton introdusse pure l’arancione e l’indaco, sette colori come il numero di note in una scala musicale), non mi viene in mente l’arcobaleno nel cielo tra sole e gocce di pioggia, e nemmeno la causa LGBT e neanche il My Little Pony.

Rivedo la copertina ormai consunta di The dark side of the moon e mi fiondo in quel prisma carico di luce affatto psichedelica.

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