Cultura

Non siamo ancora pronti per “L’Arte della Gioia”

arte della gioia
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Scritto da Sara Pellegrini

Recensione del libro “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza a cura di Camilla Rigatti.

Chi ha dimestichezza con l’editoria lo sa: quando si va da una casa editrice o da un’agenzia letteraria per proporre il proprio romanzo, bisogna avere la trama e alcuni concetti base pronti in testa da presentare in una novantina di secondi massimo. Bisogna saper dare, come si dice in gergo, il pitch del libro. 

Ora, immaginatevi questa scrittrice che nel 1976, nell’Italia democristiana dove la legge sul divorzio è stata introdotta praticamente l’altroieri e quella sull’aborto è ancora in pieno dibattito, va da un editore a chiedere che il suo romanzo venga pubblicato, e il pitch che dà più o meno suona così: la protagonista vuole diventare una donna libera, e farà di tutto per riuscirci. Ucciderà ogni figura materna per non subire alcuna autorità, vivrà appieno la propria sessualità con uomini e donne, si sposerà solo per diventare ricca e avere così libertà economica, sarà atea, socialista, combatterà contro i fascismi, primo fra tutti quello imposto dalla società attraverso la famiglia tradizionale, l’eteronormatività e il senso di colpa cattolico.

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È stata una lunga storia di rifiuti quella subita da L’arte della gioia, tortuoso il tragitto per arrivare a noi percorso da questo romanzo fluviale, spudorato, memorabile. Nessuno ha voluto pubblicarlo per intero fino a dopo la morte di Goliarda Sapienza, nel 1998, quando Stampa Alternativa ne mise in commercio,, a proprie spese, un numero limitato di copie, alcune delle quali fortunatamente finirono nelle mani dei cugini d’Oltralpe; così L’art  de la joie in Francia divenne un successo straordinario che spinse Einaudi a ripubblicarlo in versione integrale nel 2008, a 32 anni di distanza da quando era stato terminato dall’autrice. 

L’arte della gioia oggi è un romanzo di grande attualità, che colpisce per la lungimiranza delle tematiche trattate dall’autrice: religione, femminismo, bisessualità, politiche del lavoro, rapporto tra tradizione e modernità. Buona parte delle persone che conosco in questo 2020 non è ancora pronta a vedere la realtà con gli occhi di Goliarda Sapienza (figuriamoci negli anni ‘70). 

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Modesta, la protagonista, è una donna che desidera e ama senza compromessi, i cui legami affettivi sono avulsi dai concetti di unicità e possesso. È lontana dalla morale borghese ed è capace di uccidere e ordinare omicidi pur di raggiungere i suoi obiettivi. Non sopporta l’ipocrisia, ha orrore di chi si vergogna di se stesso. Sa abbastanza della società e delle classi sociali – le ha visitate tutte: nata povera, è diventata novizia e poi, rinnegata la vocazione e sposatasi, ricca – per manipolarle a proprio piacimento, incurante dei giudizi e dei pettegolezzi. Un po’ come la prosa del romanzo stesso, una scrittura forsennata e veloce, all’interno della quale il piano narrativo dell’esteriore entra in connessione osmotica con quello dell’interiore. È così che nella stessa scena si passa dal tempo presente al passato, dalla prima alla terza persona, dall’italiano al dialetto catanese; è così che il dialogo funge sia da espediente narrativo che da mezzo di introspezione. 

L’arte della gioia si inserisce in un filone di narrativa che non solo è stata scritta nel ‘900 ma parla del ‘900: come Céline in Viaggio al termine della notte, come Isabel Allende in La Casa degli Spiriti, come Günter Grass in Il tamburo di latta. Storie personali la cui parabola echeggia i cambiamenti di un paese e di un’epoca. Quando Modesta viene al mondo, il primo gennaio del 1900, le donne che la circondano sono educate alla mistificazione e al sacrificio: svengono a comando, arrossiscono, pregano, soffocano i desideri nella vergogna e dipendono dagli uomini, dalla chiesa o da lavori degradanti per vivere. Quando Modesta è ormai anziana, negli anni ‘70, può aprire una libreria insieme alla sua amante Nina. 

La storia di Modesta è, soprattutto, la storia di una lotta: vive con il coltello tra i denti dall’inizio alla fine. Niente scivola via al suo sguardo, all’analisi costante della sua riflessione, al tentativo mai sopito di cambiamento. Tutto ciò che le accade, per quanto minuscolo e personale, diventa un paradigma da applicare per allargare il pensiero alla società e al mondo, intuirne pregiudizi e bontà, prevaricazioni e servilismi, desideri e paure. Ma Modesta non lotta solo per se stessa, la sua non è una vicenda di autoaffermazione: attraverso l’educazione anticonvenzionale che impartisce ai giovani della famiglia e l’attivismo politico che la coinvolge, le sue battaglie assumono una dimensione collettiva. L’eroina del romanzo lascerà la politica in tarda età, delusa da una sinistra soggiogata a logiche di propaganda e vendibilità, che ha perduto la grinta per assumere un volto rassicurante e imborghesito. 

Un amico cui ho detto di aver intrapreso la lettura di L’arte della gioia ha commentato secco: “Bellissimo romanzo. Più che leggerlo, l’ho subito”. A lettura ultimata, credo di aver capito cosa volesse dire: quello creato da Sapienza è un universo che avvince e trascina in peripezie e sentimenti spogliati di ogni reticenza, incurante se il lettore ne uscirà sbatacchiato o ammaccato. Il personaggio è tutt’uno con la prosa: non esiste pulizia interiore, esiste solo un grande tunnel dove talvolta uno emerge nel sole e nel mare calmo della Sicilia, talvolta il vento squassa i rami degli alberi e la grandine colpisce in faccia. 

Forse davvero non siamo ancora pronti per L’Arte della gioia. È una lettura per veri temerari. 

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Se vuoi segnalarci il tuo libro i nostri autori sono a tua disposizione per recensirlo!

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