Comincia oggi l’appuntamento di “Affabulazioni gastronomiche”, il mio editoriale sul cibo di chiacchiere semiserie per appassionati di cucina. Oggi parliamo di Prove dinamiche di buon gusto!
In questi tempi di esperti per insufficienza di prove, di chef a tutto schermo e garzoncelli ambiziosi, la cultura del mangiar bene se ne è andata a farsi friggere.
Elaborazioni, riduzioni, reinterpretazioni… il tutto confezionato ad arte da abili infiocchettatori di pietanze che ti fanno sentire in colpa non appena ti disponi ad avventare la prima forchettata e far crollare l’architettura. Alla seconda forchettata, però, ti si insinua il sospetto che tutto sia messo lì a bella posta, per farti dimenticare che a tavola l’occhio vuole anche la sua parte, ma che comunque ciò che conta è il gusto, quel mix di sensazioni che si nutrono di profumi e sapori e che nei momenti più belli gli occhi te li fanno proprio chiudere.
La verità è che l’arbiter elegantiarum dei tempi nostri deve saper tornare all’essenziale, ai piatti semplici ma non banali di una volta, alle pietanze che si presentavano con i sapori schietti delle materie prime, appena sfiorati da una manipolazione al servizio dell’ingrediente e del palato che lo deve ricevere.
Prove dinamiche di buon gusto?
Ma proprio questo aspetto mi fa pensare che la sempreverde cucina toscana sia in qualche modo la cucina del futuro prossimo venturo per i cultori del buon gusto: ingegnosa, apparentemente povera, la cucina toscana è odiata dai grandi del fornello perché non si lascia manipolare a piacimento, ma come una donna di razza si concede solo agli amanti che ne rispettano lo spirito indipendente e poco incline alle manfrine.
Provate a manipolare una ribollita o un caciucco, azzardatevi a condire i pici con sughi diversi da quelli tradizionali: sarà una delusione, un carico di dissonanze nefaste scaricate sulle vostre papille gustative, mentre il commensale toscano, che avevate invitato al vostro desco per stupirlo con la creatività degna di un grande chef, vi riderà sul muso e vi farà passare giustamente da bischero.
Si, perché per modificare una ribollita, un baccalà coi porri o un bel piatto di inzimino, bisogna essere proprio dei bischeri, ma di quelli gigliati.
Ecco allora che l’epicureo 2.0, l’uomo di buon gusto che vuole sfuggire alle trimalchioni che esibizioni dell’aspirante “ stellato”, deve vedere nella cucina toscana proprio quell’isola lontanissima e sfuggente dove i discorsi stanno a zero, dove si fa l’antipasto con bruschetta con l’olio novo e la ribollita si mangia nel tegame di coccio, perché alla fine ti sembra ed in effetti è ancora più buona. E’ il luogo mitico dove la bistecca si mangia cotta al sangue, dove le salsicce con i fagioli si impreziosiscono dell’aroma della salvia e dove il sugo del cinghiale reclama la pasta fatta in casa e tagliata alla buona, come viene viene.
Niente decorazioni, ovviamente, perché il saggio vi dirà che lo stomaco è al buio e che le buone vecchie ricette della nostra tradizione non tradiscono mai.
More is less, come dicono i minimalisti.
Ma quel piatto di baccelli col pecorino fresco, quello sburrato che sa ancora di erba, non ha bisogno di essere decorato ed abbellito.
Piuttosto va bagnato, ma con un gotto di vino buono.
Alla prossima, Irene Pagnini
Se vi siete persi i miei articoli precedenti sul cibo:
Brownie al cioccolato: Silvia ce li presenta nella Giornata Mondiale della Torta