Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich altri non era che la regista (ma anche sceneggiatrice e scrittrice) nata a Roma e morta il 9 dicembre scorso, sempre nella Capitale. Lina Wertmüller era figlia di Federico Wertmüller, un avvocato originario di Palazzo San Gervasio (in provincia di Potenza) proveniente da una famiglia aristocratica di remote origini svizzere e di Maria Santamaria-Maurizio, romana.

A scuola fu compagna di Flora Carabella, che poi sarebbe diventata la moglie di Marcello Mastroianni (con cui instaurerà una lunghissima amicizia che si rivelerà poi fondamentale per avvicinarla al mondo dello spettacolo). A diciassette anni si iscrisse all’Accademia teatrale diretta da Pietro Sharoff; in seguito, per alcuni anni, fu animatrice e regista degli spettacoli del teatro dei burattini di Maria Signorelli. Successivamente collaborò con celebri registi teatrali, tra i quali Giorgio De Lullo e Garinei & Giovannini. Lavorò sia per la radio che per la televisione, in veste di autrice e regista alla prima edizione di Canzonissima. Iniziò un lungo sodalizio artistico con Enrico Job, apprezzato scenografo teatrale, con il quale si sposò. Il matrimonio è durato quarantaquattro anni, fino a quando Enrico Job fu stroncato nel 2008 da una leucemia fulminante. La coppia non aveva avuto figli, ma trent’anni or sono nella loro casa arrivò la neonata Maria Zulima, e la notizia finì su tutti i giornali e pure in tribunale. Lina all’epoca aveva 62 anni e le foto della matura neomamma con la bimba in braccio indussero l’Anfaa (Associazione Nazionale Famiglie Adottive A datarie) a presentare un esposto alla Procura della Repubblica per i minori di Brescia perché si ipotizzava un utero in affitto o un’adozione irregolare. Le cose stavano diversamente, in quanto Maria Zulima era figlia naturale di Enrico Job. Nata da una sua relazione extraconiugale, come spiegò lo scenografo in un’intervista a Repubblica: «È stata una scappatella senza importanza. A Lina non avrei confessato nulla. Ma la madre naturale della bambina non ne voleva sapere. Io ho avuto un gran travaglio pensando all’eventuale aborto. Alla fine, la piccola me la sono portata a casa».
E la Wertmüller visse una specie di seconda giovinezza come mamma adottiva, etichetta che la regista, parlando di Maucì – così la chiamavano affettuosamente a casa – ha sempre rifiutato dichiarando lapidaria:

Maria è la figlia di Job e quindi è mia figlia. È nata dal nostro amore. La vita è imprevedibile. Diventare genitori è stato bellissimo
Lina Wertmüller esordì sul grande schermo come segretaria di edizione in “…e Napoli canta!” di Armando Grottini nel 1953, più avanti è aiuto regista di Federico Fellini nelle pellicole “La dolce vita” e “8½”. Il suo esordio come regista avviene nel 1963 con “I basilischi”, amara e grottesca narrazione della vita di alcuni poveri amici del Meridione, che le valse la Vela d’argento al Locarno Festival. Nel 1968, con lo pseudonimo di Nathan Witch, dirige un western all’italiana, “Il mio corpo per un poker” con Elsa Martinelli. Nella seconda metà degli anni ‘60 nasce la sua collaborazione con l’attore Giancarlo Giannini, che è presente nei suoi grandi successi, tra i quali “Mimì metallurgico ferito nell’onore” (1972), “Film d’amore e d’anarchia…” (1973), “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” (1974), “Pasqualino Settebellezze” (1976) ed altri, che a chi scrive piacquero meno assai. Per Pasqualino Settebellezze, che ebbe successo anche negli Stati Uniti, la Wertmüller fu candidata a tre Premi Oscar nella cerimonia del 1977 (migliore regia, miglior film straniero, migliore sceneggiatura), mentre una quarta candidatura arrivò a Giancarlo Giannini per la sua interpretazione del protagonista.

Lina Wertmüller è la prima donna a essere candidata alla vittoria dell’Oscar come miglior regista; dopo di lei ci saranno solo Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow, Greta Gerwig, Emerald Fennell e Chloé Zhao. Per le registe è sempre stata un esempio, non solo perché è stata la prima regista ad avere avuto successo dal punto di vista commerciale, ma anche perché erano in poche a fare questo mestiere: «Non si può fare questo lavoro perché si è uomo o perché si è donna. Lo si fa perché si ha talento. Questa è l’unica cosa che conta per me e dovrebbe essere l’unico parametro con cui valutare a chi assegnare la regia di un film».
In un’intervista, alla domanda se avesse avuto diffcoltà in quanto donna dietro la macchina da presa rispose: «Me ne sono infischiata. Sono andata dritta per la mia strada, scegliendo sempre di fare quello che mi piaceva. Ho avuto un carattere forte, fin da piccola. Sono stata addirittura cacciata da undici scuole. Sul set comandavo io. Devi importi. Gridavo e picchiavo. Ne sa qualcosa Luciano De Crescenzo durante le riprese di “Sabato, domenica e lunedì” con Sophia Loren. Non faceva altro che gesticolare con l’indice di una mano e così per farlo smettere gli “azzannai” il dito».
Triviale e sboccata, manesca? Si lamentavano in molti di lei durante le riprese: trovarobe, tecnici vari. Era terribile, indubbiamente, ma se non fosse stata così non sarebbe mai e poi mai diventata Lina Wertmüller, non avrebbe mai ricevuto l’Oscar ad honorem nel 2020, con la motivazione: “per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa”.
Il 1983 è l’anno di “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada”, film che affronta con leggerezza e coraggio il tema del terrorismo. Risale al 1986 la prima delle sue rare incursioni nel teatro lirico con la regia della “Carmen” di Georges Bizet, che inaugura la stagione lirica 1986-87 del Teatro di San Carlo di Napoli, ripresa in diretta su Rai 1. Nel 1997 dirige una Bohème all’Opera di Atene. È stata autrice di diverse sceneggiature e regie teatrali, da “Due più due non fa più quattro” (1968) e “Fratello sole, sorella luna” (1972), entrambi per la regia di Franco Ze relli, a “L’esibizionista” (1994), da “Gino, Ginetta e gli altri” (1995) a “Lasciami andare madre” (dal libro di Helga Schneider, con Roberto Herlitzka nella parte della vecchia madre).

La parentesi politica, verrebbe da dire inevitabile, ci fu nel 1987, su proposta di Bettino Craxi, quando venne inclusa tra i membri dell’Assemblea nazionale del PSI. Nel 1992 diresse “io speriamo che me la cavo” con Paolo Villaggio, mentre nel 1996 torna alla satira politica con “Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica” con Tullio Solenghi e Veronica Pivetti come nuovi Giannini-Melato. L’esperimento non riesce e non c’entra la bravura di regista e interpreti, ma è sicuramente colpa di un’alchimia mancata.
Due anni dopo, per la prima volta si cimenta nel doppiaggio: è la voce di Nonna Fa in Mulan. Inconfondibile.

Salto a pie’ pari le produzioni artistiche dal 1999 in poi e pure i premi, tipo il David di Donatello nel 2010 e la cittadinanza onoraria di Napoli nel 2015 (meritatissima): credo che il meglio di sè lo avesse dato in tempi passati e non voglio colpire post mortem (alcuni lo hanno fatto, vigliaccamente).
Rammento che sono decine gli attori (anche star internazionali) che hanno lavorato con la Wertmüller: Ugo Tognazzi in “Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada” (’83), Elsa Martinelli ne “Il mio corpo per un poker” (’68), una specie di spaghetti-western (li giravano cani e porci a quell’epoca, pure Lizzani e Pasolini). E poi Eros Pagni, Isa Danieli, Fernando Rey, Turi Ferro, Gastone Moschin, Roberto Herlitzka, Rutger Hauer, Nastassja Kinski, Dominique Sanda, Peter O’Toole, Faye Dunaway, Stefania Sandrelli, Raoul Bova, Piera Degli Esposti e persino l’ex moglie di Silvio Berlusconi, Miriam Bartolini in arte Veronica Lario in “Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione” dell’84, con tanto di colonna sonora di Paolo Conte.
Credo varrebbe la pena leggere una sua illuminante biografia intitolata “Tutto a posto e niente in ordine, Vita di una regista di buonumore” Oscar Mondadori, dal momento che i palinsesti televisivi, soprattutto la Rai, in occasione della sua scomparsa, hanno brillato per la pochezza dei programmi dedicati.

Nel libro si parla pure della sua rinoplastica, dell’acquisto estemporaneo dell’attico romano dove ha vissuto. E degli occhiali, proprio quegli occhiali bianchi che non si tolse mai e che la identificano come icona immortale di un periodo d’oro del cinema italiano. Raccontò la regista che erano solari, balneari e regalavano un clima di festa. Ne ordinò cinquemila paia in una fabbrica: “Era l’ordine minimo, ma li pagai a rate”. Lina Wertmüller aveva rivelato la sua passione per gli occhiali bianchi, quando aveva festeggiato i 90 anni, spiegando anche il motivo del suo innamoramento. Lei però una volta inforcati, non poteva più fare a meno di quel dettaglio che le dava un’aria vacanziera, celando il suo sguardo indagatore, tipico da regista che studia scene e personaggi. Ormai era nato un amore per la vita. Così, attorno alla metà degli anni Ottanta, ottica Vasari, storico marchio di occhialeria della capitale, aveva realizzato su misura per Lina Wertmüller gli iconici occhiali da vista bianchi che hanno segnato lo stile e l’estetica della grande regista scomparsa.
Capelli biondi e negli ultimi decenni candidi, portati cortissimi, alla garçonne, minimal, ma soprattutto i mitici occhiali dalla montatura bianca, dietro le cui lenti fumé si notavano occhi penetranti, bistrati di nero e uno sguardo ironico. Per questo suo look, a cui è rimasta sempre fedele fino alla fine, Lina Wertmüller era distinguibile anche in una vasta platea. Per il resto del guardaroba, la grande regista preferiva maglie a collo alto tinta unita, pantaloni e lunghe collane di pietre dure. Ma gli occhiali bianchi, quelli erano la sua nota distintiva, il suo accessorio irrinunciabile ed erano anche il suo amuleto, onnipresenti perfino con le toilettes da red carpet e da Oscar. Quando Woody Allen la chiamò per un cameo nel film “Io e Annie” lei gli spedì un paio di occhiali bianchi, scrivendogli: “Puoi metterci dietro chi ti pare”.
Io mi sono persa il biopic girato nel 2018, quando per celebrare i suoi 90 anni fu realizzato un toccante documentario di Valerio Ruiz, suo assistente alla regia e stretto collaboratore, sul suo percorso professionale, intitolato non a caso “Dietro gli occhiali bianchi”, dove si raccontano decine e decine di aneddoti come le settanta canzoni scritte da lei per “Gian Burrasca” fino all’amicizia con Dustin Hoffman. E a proposito di Dustin Hoffman, come non riconoscere la giovane Lina nel meraviglioso personaggio interpretato proprio da Hoffman nel film di Sidney Pollack “Tootsie” che vinse una valanga di Oscar nel 1983? La pellicola, record di incassi dopo ET, narrava la storia di un attore talentuoso ma disoccupato, interpretato da Dustin Hoffman, costretto ad adottare una nuova identità di donna per ottenere la parte in un film, e quella donna è il ritratto preciso della regista italiana negli anni ‘60.

Un capitolo a parte lo voglio dedicare, come omaggio personale e non rilettura delle agenzie di stampa trite e ritrite, a due momenti della carriera artistica wertmülleriana che mi riportano a un periodo bello della mia vita, l’infanzia.
Il primo riguarda lo sceneggiato televisivo in otto puntate trasmesso dalla RAI il sabato in prima serata “Il giornalino di Gian Burrasca”, trasmesso dal 19 dicembre 1964 al 6 febbraio 1965 e replicato nel 1973, nel 1982 e nel 2012 su Rai 5, ma che si ritrova su YouTube e RaiPlay.
Io frequentavo la Prima Elementare e fu la Befana a portarmi in dono l’omonimo romanzo da cui fu liberamente tratto lo sceneggiato, scritto da Vamba e edito da Bemporad Marzocco nel 1907. L’appuntamento televisivo in prima serata raccolse un pubblico vastissimo, composto da grandi e piccini. Il successo fu clamoroso e meritatissimo perchè oltre alla regia di Lina Wertmüller, che ne curò anche l’adattamento televisivo, le scenografie e i costumi erano rispettivamente di Tommaso Passalacqua e Piero Tosi. E qui mi par di sentire Lina che esclama: stica! Autore delle musiche, dirette da Luis Bacalov, era Nino Rota. E sempre Lina avrebbe aggunto: me’ cojoni! Indimenticabile la canzone “Viva la pappa col pomodoro”, interpretata da Rita Pavone, all’epoca affermata cantante di musica leggera e nel “Giornalino” impegnata nel ruolo maschile dello scatenato protagonista Giannino Stoppani, insieme ad attori teatrali del calibro di Ivo Garrani, Valeria Valeri, Milena Vukotic, Arnoldo Foà, Paolo Ferrari, Elsa Merlini, Sergio Tofano e Bice Valori. Ai più giovani, o a chi ha figli piccoli, suggerisco di vedere questo sceneggiato in bianco e nero, una produzione che adesso la Rai e lo dico col massimo rispetto, se la sogna. Non so se ancora venivano registrate le puntate in ‘presa diretta’, come le commedie degli anni ‘50, ma di certo è impossibile non cogliere la freschezza, la professionalità, la sapienza, nell’offrire al pubblico un ‘prodotto’ che poteva apparire superato e polveroso ed invece si rivelò spumeggiante e divertente nei contenuti, mai banali.
Il secondo momento amarcord riguarda il film “Rita la zanzara” un musicarello del 1966, all’epoca molto in voga diretto dalla Wertmüller (firmatasi però con lo pseudonimo G. Brown). Mi ricordo sempre i seggiolini di legno ribaltabili del cinema, la gazzosa all’arancia, file di bimbi festosi in un ambiente col riscaldamento al minimo e i calzerotti di lana che bucavano, l’atmosfera di festa. Robe spartane, nulla a che vedere con le poltronissime dei multiplex, il puzzo di popcorn venduto a quintali, il Dolby surround ed altre amenità. Noi però eravamo felici e contenti con poco, come nelle novelle. Il titolo della pellicola richiama esplicitamente quello de “La zanzara”, storico giornale studentesco del liceo Parini di Milano, la cui redazione rimase coinvolta in una vicenda giudiziaria che scandalizzò e divise la società italiana dell’epoca, proprio pochi mesi prima dell’uscita del film.
Tre giovani giornalisti del periodico furono denunciati e processati con l’accusa di stampa oscena e corruzione di minorenne a causa di un articolo sulla sessualità degli studenti dell’istituto: tutto si risolse in un’assoluzione. La colonna sonora originale fu lanciata in vinile con tutte le canzoni dal film ed ebbe un grande successo.
Il film avrà un seguito nel 1967, dal titolo “Non stuzzicate la zanzara”, anch’esso diretto da Lina Wertmüller (questa volta accreditata col suo vero nome). La protagonista Rita è la cantante Rita Pavone, all’apice della fama, a ancata da Giancarlo Giannini, che aveva raggiunto il grande pubblico nel 1965 con lo sceneggiato tivù “David Copperfield” diretto da Anton Giulio Majano.

Di tutto questo dobbiamo essere grati a Lina Wertmüller, e perdonarle anche i film figli di una Lina minore, dai titoli pretenziosi e dai contenuti deludenti. Di lei, della sua personalità fin troppo esuberante, del suo fare eclettico e mai scontato, si accetta tutto. Ha segnato il cinema italiano e non solo quello, a modo suo, talvolta in maniera sguaiata e provocatoria: ma nessun regista, nessuno mai, ha saputo tirare fuori i personaggi di Raffaella Pavone Lanzetti e Gennarino Carunchio in “Travolti da un insolito destino…” come ha fatto lei con l’indimenticabile coppia Melato – Giannini.
Ci mancheranno quegli occhiali bianchi, ma soprattutto quella gran bella testa che li indossava, che avrebbe preferito un Oscar, anzi un’Oscarina, di nome Anna.
Fonti: Wikipedia, Il fatto quotidiano, Ansa, Vanity Fair