La principale colpa dei Maneskin, a dirvela tutta, non è quella di aver fatto una canzone
troppo simile a quella di qualcun altro, ma di costringermi a scrivere ancora dell’obrobrio estetico che alcuni chiamano “Festival di Sanremo”.

Vi dico chiaro e tondo che questa cosa me la lego al dito, un po’ come Vito Corleone nel Padrino, perchè io certe cose non me le scordo.
Ma stiamo ai fatti. Viene fuori che la canzone vincitrice replica nel ritornello musica e testo di un pezzo cantato da altro gruppo nel 2015 ed un esame approfondito dimostra che effettivamente tanto le parole quanto il giro di accordi (quest’ultimo però rovesciato) sono quelli: di seguito, eccoci all’inevitabile rivolo di polemiche, distinguo e volonterosi tentativi di cercare improbabili distinzioni fra plagio volontario e plagio involontario (forse basandosi sul fatto che le note sono solo sette).
Tutto ciò premesso, io non riesco a comprendere né le ragioni di tanto stupore, né della conseguente indignazione: come non accorgersi che Sanremo è da anni un colossale tarocco?
Se è vero che ogni anno si succedono nuove e più clamorose accuse di plagio per quanto riguarda le canzoni, resta l’impressione che l’intero carrozzone sia ormai un colossale bluff fatto di aria fritta e molta guitteria, una specie di kermesse tenuta in piedi dalla disperazione e dai luoghi comuni.
Ora, poichè dei cantanti e delle canzoni ho già detto in altra occasione, non intendo
ripetermi sull’argomento.
Ho tuttavia parecchio da dire sulla presunta “carica di trasgressione” che il Festival ci ha propinato sotto forma di un palese richiamo al glamour rock, fra baci gay, annunci di outing ad effetto e costumi di scena all’insegna del cattivo gusto e del deja vu. Perchè qui casca l’asino, nel senso che nulla di quello che si è visto sul palco del festival è realmente trasgressivo e soprattutto realmente nuovo: l’abbigliamento dei già citati Maneskin, tanto per dire, era evidentemente il copia ed incolla del costumino di Achille Lauro dell’anno prima, mentre la proliferazione di unghie maschili smaltate e di facce truccate con lo stampino illustravano bene il tasso standard di ambiguità sessuale prevista dal regolamento.
E che dire del testimonial del glam rock da spiaggia?

Fra corone di spine e piumaggi in stile Renato Zero, i rivoli di sangue finto sul cerone fresco, più che alla trasgressione, facevano pensare alla bufala della Madonna di Civitavecchia, mentre la qualità della voce, sia pure spalmata su testi allucinanti e musiche approssimative, riusciva a brillare solo per la sua assoluta assenza. E la dovremmo chiamare trasgressione? O forse è la stucchevole ripetizione di una bieca normalità di provocazioni che non provocano nulla e nessuno?
E che dire del solito Fiorello che scopiazza se stesso fra battute logore, ammiccamenti e
tententativi di trasformare l’Ariston nel Club Mediterranee?

La canzone tarocca dei Maneskin, insomma, è l’ultimo dei problemi, o forse semplicemente è funzionale al sistema dell’aria fritta rivenduta come fiera del nuovo. Resta l’angoscia di una trasgressione finta come i cantanti portati in gara e soprattutto resta il rimpianto di cospicue quantità di denaro pubblico buttate nel cesso. Ma neppure questa, a pensarci bene, è vera trasgressione.
Al limite, a discapito degli spettatori.