Propongo una riflessione circa la sbrigativa decisione di chiudere mostre e musei nell’ambito delle generali misure per il contenimento dei contagi, con Tiziano Panconi, storico dell’arte italiano, esperto della pittura italiana dell’800.
Riteniamo necessario stimolare un’ulteriore e particolare riflessione rispetto alla situazione. Ci siamo chiesti, preliminarmente e in buona fede, come una visita nei luoghi della bellezza e della cultura possa contribuire alla diffusione del contagio. Ci saremmo aspettati visite contingentate con prenotazione obbligatoria, biglietti acquistati online, potenziamento delle misure di distanziamento e sicurezza all’esterno e all’interno dei siti museali più frequentati, opportune segnaletiche orizzontali, termoscanner all’ingresso, dispenser di gel disinfettante in ogni sala, visitatori muniti di mascherina, opportune prescrizioni sul distanziamento, apposite applicazioni per scaricare su smartphone audioguide e altri contenuti… ma chiudere tutto, senza appelli e distinguo, ci pare francamente una misura inutilmente punitiva, nonché ingiustamente sbrigativa.
Fra l’altro i musei e le mostre italiani, per dimensione e rilevanza in termini di visitatori, non sono tutti uguali, anzi, se scaliamo verso il basso oltre i top trenta più visitati, scopriremo numeri sovente esigui e realtà di nicchia attanagliate da una crisi di flussi permanente. Non ricordiamo ahimé, per esempio, di aver mai incrociato altri avventori durante le visite al Museo civico di Pistoia, alla Pinacoteca provinciale di Bari, al Museo Archeologico Nazionale di Palestrina o a Palazzo Bonacossi, nella Ferrara del Ministro Franceschini.
Possiamo dunque considerare nella stessa categoria di rischio gli Uffizi, con i loro oltre 4 milioni di biglietti staccati nel 2019, e realtà strettamente locali nelle cui sale, oltre alla storia e alla folgorante bellezza, echeggia soltanto il silenzio?
I musei statali sono circa 500 e ad essi si aggiunge una foresta di sedi espositive private – sostenute in gran parte dalla vendita dei biglietti – sulle quali adesso si abbatte la scure della chiusura sommaria, che negherà loro, in molti casi, la possibilità di sopravvivere. Alla tutela e promozione dei beni culturali è collegato un indotto altamente professionale, composto da studiosi, curatori, restauratori, trasportatori, allestitori, editori, architetti, assicuratori, tecnici, agenzie di comunicazione e pubblicità, i quali, con le loro famiglie, erano usciti con difficoltà e, in molti casi ridimensionati, dai mesi del lockdown e che adesso affidano i loro dipendenti, in toto, alla cassa integrazione, alla fine della quale seguiranno decine di migliaia di licenziamenti.
Nei musei e alle mostre, alcune, in questo periodo difficile, allestite con grande sforzo e spirito di sacrificio, si va per ristorare la mente e affrontare esperienze culturali ed emotive che, tra le altre cose, rafforzano il senso civico e identitario della nazione e, diversamente da altri contesti altrettanto virtuosi, non ci si siede, non ci si “appoggia”, si parla poco e sottovoce.
Il 12 novembre avremmo dovuto inaugurare una grande mostra dedicata a Giovanni Boldini al Mart di Rovereto, sede museale modernissima, progettata dall’architetto Botta e caratterizzata da immensi corridoi e una grande cupola centrale, in vetro. Anche in questo caso, confrontandoci con questi smisurati volumi, ci chiediamo in quali percentuali il civilissimo popolo delle mostre, distanziato e munito di mascherine, avrebbe potuto scambiarsi il virus e se tali presunti numeri siano sufficienti a motivare la rinuncia a quello che la legge definisce un “servizio pubblico essenziale”.
