Scrivere è terapeutico, sovente una valvola di sfogo: se si scrive per noi stessi si riempie una specie di diario talvolta ad uso dello strizzacervelli, se si scrive anche per gli altri si riempiono i social media, e bisogna essere psicologicamente preparati ad accogliere le altrui opinioni, non sempre in buona fede ed intellettualmente oneste. C’è stato un tempo ormai lontano in cui ho rincorso il miraggio di diventare giornalista pubblicista, ma non avendo gli agganci giusti ho messo il sogno nel cassetto. Credo tuttavia di avere le qualità per scrivere un articolo, me ne convinco soprattutto leggendo cosa scrivono certi giornalisti ormai venduti al politico di turno. Qualcuno potrebbe insinuare che il mio ragionamento somiglia tanto alla novellina della volpe e dell’uva, in realtà la mia è solo la consapevolezza che oggi più di un tempo non è tanto la bravura a far emergere, quanto altre qualità che qui non elencherò. Scrivo dunque come fossi una privata cittadina elevata a opinionista non da talk show, piuttosto da antica rubrica “Lettere al direttore” quando chi leggeva i giornali instaurava un rapporto diretto e garbato di domanda e risposta con la redazione. Sulla sciagura del Moby Prince non ho mai scritto nulla, avendo liquidato erroneamente e superficialmente il fatto come l’ennesimo mistero italiano irrisolto. Mi ha incuriosita però il documentario “Il mistero Moby Prince” andato in onda su Rai 2 il 20 ottobre scorso e che ho visto su RaiPlay e ne consiglio vivamente la visione.

Un film documentario di Salvatore Gulisano, prodotto da Simona Ercolani e Stand by me per Rai Documentari, con la partecipazione straordinaria di Salvo Sottile. Probabilmente chi come me arriva a conoscenza dei fatti senza il condizionamento delle cronache del tempo rimarrà scosso ma non rassegnato, perchè il documentario dimostra che vince, seppure in questo caso amaramente, chi non si arrende e crede nella verità dei fatti più che nelle verità processuali.
Il 15 settembre scorso la seconda – seconda! – Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Andrea Romano, in scadenza di mandato, ha presentato la relazione finale sul disastro Moby Prince: un’illustrazione certamente dolorosa, dopo 31 anni dal fatto e dopo che il dottor Angelo Chessa, anima dell’associazione familiari delle vittime si è spento prematuramente nel giugno 2022, esattamente dopo tre giorni l’intervista che insieme ad altre correda il film-documentario.
Quella di Chessa e del fratello Luchino sono state vite spese alla ricerca della verità che lo Stato aveva negato, “perché il fatto non sussiste”. 140 morti non sussistono e il colpevole faceva comodo fosse tra le vittime: il comandante Ugo Chessa secondo approssimative ricostruzioni non solo giornalistiche aveva commesso un errore umano, c’era la partita di pallone in tivù, c’era la nebbia.

La partita di pallone c’era, ma il comandante non la guardò perchè in plancia comandi la televisione non c’era e neanche la nebbia c’era: c’erano semmai, dopo la collisione, fiamme e fumo.
La nebbia non c’era.
C’era una petroliera che non doveva essere lì dov’era, insieme a tante altre navi nel mare antistante Livorno non dovevano esserci.
Non c’erano colpevoli dunque: i passeggeri e l’equipaggio non morirono subito, ma questo non ce lo vogliamo sentir dire perché è insopportabile, soprattutto all’esito dell’ascolto dei contatti radio, che sono lì a dimostrare che in quel mare nero, mare nero, mare ne’, c’erano altre navi con dei carichi da nascondere, carichi pesanti. C’era la guerra, la prima guerra nel Golfo e c’era la guerra nei Balcani e i bastimenti erano carichi e la base americana vicina. Ovviamente io non ho elementi per esprimere giudizi in merito, ma non posso reprimere riflessioni e suggestioni derivate dall’attenta analisi di questo documentario, che induce ad approfondire e oggi Internet è strumento prezioso, perché nel breve tempo di una trasmissione sono tratteggiati con precisione i fatti e gli atti, i depistaggi, le imprecisioni e le omissioni filtrati attraverso le testimonianze di chi c’era e di chi aveva titolo per parlare, come il dottor Angelo Chessa, che non si è mai arreso, che per andare il più vicino possibile alla verità e riabilitare il padre e onorarne la memoria, ha ipotecato casa e ha speso mezzo miliardo delle vecchie lire. Mezzo miliardo del vecchio conio per raggiungere una verità diversa da quella fornita dallo Stato italiano, che comunque – e lo dico per conoscenza diretta – per quei processi ha speso soldi, i soldi dei contribuenti. Verrebbe da dire che non furono soldi spesi bene, ma errare humanum est anche quando si amministra la giustizia in nome del popolo.
Torna in mente, ascoltando l’intervista all’armatore Vincenzo Onorato, che lo stesso è stato di recente indagato dalla Procura di Milano insieme a Beppe Grillo, per traffico di influenze illecite tra marzo 2018 e il febbraio 2020 legate ad alcuni contratti pubblicitari sottoscritti dalla compagnia di navigazione Moby con il blog beppegrillo.it. Certo, si dirà, non c’entra nulla, son fatti nuovi e distinti e la tragedia nel mare di Livorno lontana, ma questa ribalta lascia perplessi.

Per la Moby Prince l’armatore fu legittimamente risarcito dall’assicurazione per due miliardi di euro e la Compagnia di navigazione non si peritò, per ragioni unicamente umanitarie, di proporre somme risarcitorie ai parenti delle vittime. Qualcuno accettò intimorito da legali azzeccagarbugli: Angelo Chessa e il fratello Luchino decisero allora di intraprendere la strada più difficile, tortuosa e complicata, insieme all’avvocato Marco Giunti, legale di Parte Civile del primo processo celebrato negli anni Novanta. Ripercorro dunque la mia vita professionale, aule penali, magistrati, avvocati, oltre un quarto di secolo vissuto al servizio della Giustizia, grazie alla professione di trascrittore inserita per legge proprio agli inizi degli anni Novanta, qualche decennio dopo i telefilm americani di Perry Mason dove la stenotipista sedeva in aula vicino al Giudice. Ricordo le colleghe di Livorno impegnate nei verbali d’udienza, ricordo un nome che echeggia nel corso del documentario: Shifco. Io l’ho trascritto tante volte quel nome, quando a Pistoia fu celebrato il processo al giornalista Rai Maurizio Torrealta, accusato di diffamazione da un imprenditore locale (la vicenda era legata all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin). Probabilmente i verbali del processo saranno finiti a Roma, perché anche per l’assassinio della giornalista e del suo operatore fu istituita una Commissione d’inchiesta parlamentare. Sono passati tanti anni, c’erano i floppy disk per salvare i files del pc ed io non ho conservato nulla degli elaborati, depositati al tempo in Cancelleria: ma ricordo bene la nave 21 Oktobar II, ammiraglia appartenente alla flotta Shifco, che si diceva non trasportasse solo pesce. Il nome di quella nave rispunta in quella serata senza nebbia al largo del porto di Livorno, il 10 aprile 1991.
C’era la nave così discussa o c’era una bettolina impegnata nel bunkeraggio ad impedire l’ordinaria navigazione della Moby Prince? Chissà, dopo 31 anni ancora si vaga nella nebbia, quella sì, delle ipotesi e delle congetture.
Angelo Chessa non ha potuto né vedere il documentario finito, né assistere alla relazione finale della seconda Commissione, però è morto sereno, pur colpito da una grave malattia, per aver riabilitato l’onore del padre, il comandante Ugo Chessa e per aver portato avanti con impegno la ricerca della verità sull’accaduto, mutilata da una giustizia (minuscolo) che ha vergato una delle pagine più nere e vergognose: difficile dimenticare la lettura della prima sentenza “scortata” dai Carabinieri, perché di certo era difficile pronunciare “il fatto non sussiste” con 140 morti per mancato soccorso, che hanno agonizzato diverse ore dopo l’impatto prima di spirare.
Senza soccorso, in una serata senza nebbia.
I fratelli Chessa hanno rappresentato meglio di altri la reazione legittima e tenace ad uno Stato che non ha fatto il suo dovere fino in fondo, commettendo errori ed omissioni, agendo anche in modo irriverente nei confronti delle vittime e dei loro familiari. Angelo Chessa è andato avanti aiutato dalle nuove tecnologie e da ulteriore documentazione, coadiuvato dal consulente tecnico dottor Gabriele Baldanza, che cito perchè ritengo, per la mia esperienza professionale, che il c.t. possa essere determinante in taluni procedimenti penali più delle testimonianze.
Il documentario si chiude ricordando che sono ancora in corso, dopo 31 anni, le indagini di due Procure. Dopo 31 anni, un nuovo processo potrà essere fatto solo se verrà contestato il reato di strage, che non cade in prescrizione.
Centoquaranta morti cosa sono?