Cultura

Romanzo Quirinale

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Avevo scritto, un paio di mesi fa, del Mattarella in fuga dal Quirinale, come un tranquillo funzionario della pubblica amministrazione che arriva all’agognata pensione: e invece no, perché proprio sul più bello qualcuno ha deciso che di pensione se ne riparla più avanti, a dire bene fra due anni, perché non c’è il sostituto e la vacatio non è né prevista né opportuna.

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Il punto è semplice: fra le macerie del bordello mediatico di questi giorni resta una politica capace di giocare solo per lo zero a zero, a metà fra il Gattopardo e la Stangata, mentre il tecnocrate Draghi, deciso a prendersi il Quirinale per terminare la sua opera di commissariamento delle istituzioni, è stato fermato con ogni mezzo e sarà costretto ad ingaggiare nei prossimi mesi una dura battaglia con il sistema dei partiti e dei suoi capo tribù in cui le uniche cose sicure sono l’incertezza dell’esito finale e la riluttanza a fare prigionieri.

Ma il dato peggiore è che questo “Romanzo Quirinale” è un noir dove non si salva nessuno, perché tutti raccattano figure di guano. In particolare, i grandi sconfitti sono i king makers per insufficienza di prove, l’inconcludente terzetto Salvini- Letta- Renzi, buono a sciorinare nomi e possibili candidati già bruciati (ma che dico: carbonizzati!) un nanosecondo dopo essere stati messi in pista.

E che dire dei cinque stelle? Conte e Di Maio che somigliano a due rette parallele, più un plotone di peones preoccupati solo di procrastinare la durata della legislatura e quindi disposti a qualsiasi compromesso pur di non essere costretti a cercarsi un lavoro. Sommate un Berlusconi che assume Sgarbi come telefonista ufficiale e poi si ritira al San Raffaele, un PD con poche idee ma confuse ed un Salvini che per diventare finalmente leader riconosciuto del centro destra non trova di meglio che distruggere il centro destra e creare scontento nel proprio elettorato, che ha vissuto la rielezione di Mattarella come una sconfitta senza attenuanti di sorta.

In tutta questa baraonda aleggia una domanda: cosa è cambiato rispetto a pochi mesi or sono, quando Draghi era praticamente presentato come il Cavaliere Bianco venuto a salvare la baracca nel nome del Signore?

Semplice: il disprezzo manifestato dal banchiere senza macchia e senza paura (o quasi!) verso i politici non è passato inosservato e, se i boiardi della partitocrazia hanno finto di ingoiare il rospo in attesa dei soldi dell’Unione Europea, è chiaro che i giorni di Draghi saranno contati allorché l’agognata pecunia sarà finalmente accreditata e il sistema non avrà più bisogno di lui. Questo e solo questo era la molla che spingeva l’ex presidente della BCE al Quirinale, ben sapendo che dalla più alta carica dello Stato avrebbe potuto facilmente imbottire le istituzioni ed il deep State con i propri pretoriani, lasciando ai professionisti della politica il ruolo di “ragazzi immagine” del sistema. Peccato per lui che la politica lo abbia capito in anticipo e gli abbia di fatto imposto di restare al suo posto e di non pensare di potersi allargare. Del resto, nel disastro del panorama politico che adesso ci ritroviamo, il buon Draghi non riuscirebbe a trovare un solo alleato credibile e dovrebbe concepire una rapida controffensiva per non essere costretto a campare alla giornata come un Conte qualunque.

In questo quadro sorge però una ulteriore domanda: dopo tutti gli avvertimenti delle ultime settimane, siamo sicuri che zia Ursula si decida a mandare i soldi? Difficile affermarlo, anche perché le motivazioni non sarebbero del tutto irrazionali. Questa è esattamente la ragione per cui Draghi resta a Palazzo Chigi, almeno per adesso, anche se l’idea di un default prossimo venturo torna ad affacciarsi in modo preoccupante e, purtroppo, estremamente verosimile, visto il livello di credibilità della nostra classe dirigente.

In un quadro del genere, il ricorso alle urne per sollecitare l’emergere della reale volontà popolare sarebbe la soluzione istituzionalmente corretta ed è forse per questo che la Meloni ha deciso di tenersi fuori dalla baraonda, votando un candidato di bandiera e giocando la carta della coerenza ad ogni costo per presentarsi alle urne con una proposta politica più attrattiva possibile. La posizione defilata nella conferenza stampa del centro destra racconta meglio di qualsiasi discorso la distanza fra FDI, Salvini ed il Berlusca sbiadito degli ultimi mesi, ma è chiaro che se la Meloni vorrà governare dovrà prima prendersi il 51 % dalle urne e questo potrebbe avverarsi soprattutto se i sospirati fondi europei dovessero saltare ed il corpo elettorale si dovesse trasformare in un branco di disoccupati senza più pazienza e senza più fiducia nelle istituzioni.

E intanto Mattarella ha già disfatto gli scatoloni

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S. Del Giudice

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