Eppure era proprio lui: l’Iguana, il malefico Iggy Pop, l’icona del rock del tempo che fu sconvolta, per un caso strano, non dall’abuso di qualche sostanza allucinogeni, ma dalla difficoltà di annunciare su internet le sue intenzioni di fare qualcosa con i Maneskin. E così è stato! Si, i Maneskin, quelli di Sanremo e dell’Eurofestival, quelli che tutti salutano come i nuovi fenomeni del rock solo perché le vere rock star sono morte o stanno a godersi la vita in costa Azzurra o in Sicilia, hanno duettato con Iggy Pop.

A vederlo così, spaesato ed un po’ rincoglionito, il povero Iggy Pop mi è sembrato molto simile all’Enzo Biagi sbatacchiato suo malgrado in una celebre serata televisiva made in Celentano, anche se questa volta non c’è un Baccini che ci scrive sopra una canzone: resta il fatto che con spot come questi ti viene in mente che per il rock sarebbe forse meglio finirla qui, ben sapendo che spesso una fine spaventosa è sempre meglio di uno spavento senza fine.
Ma, direte voi, questi Maneskin sono così terribili? Cosa hanno fatto di così turpe da far invocare la fine del rock? Bè, a dirla tutta il problema non sta in cosa hanno fatto questi 4 ragazzi, ma piuttosto in cosa potevano fare e non hanno fatto: perché quattro coraggiosi ragazzotti romani, capaci di andare a suonare per strada per farsi notare e sfogare una sana voglia di LED Zeppelin si sono trasformati in una gang di belloni da copertina dopo essere passati dal solito truccatore che copre di glitter tutti i concorrenti di X Factor?

Il problema vero è che il rock è trasgressione, elogio di ciò che il main stream dipinge come brutto e distorto, e quando, dopo essere penetrato nel pensiero della gente, il suo messaggio diventa parte del main stream stesso, ecco che il rock si snatura e la trasgressione perde il suo valore eversivo per diventare un prodotto industriale.
Questo è esattamente ciò che è accaduto ai Maneskin, presi dalla strada ed issati su un cavallo bardato a battaglia per costruire un prodotto di successo partendo dal talent show per finire sui circuiti internazionali passando da Sanremo (il che è già tutto dire per un gruppo rock).

La chiave è ovviamente l’ambiguità sessuale, la fluidità ostentata e cantata secondo i dettami del solito copione da quattro soldi di un Achille Lauro qualunque: sono lontani i tempi in cui i Genesis, per affrontare il tema proibito della transessualita’, raccontavano in musica il mito del vate Tiresia o del giovane Ermafrodito rapito dalla ninfa Salmacis, perché ora bastano due righe di rimmel, un cantante con i tacchi a spillo che si strofina al palo della lap dance e qualche gossip agitato ad arte dalle riviste che nutrono la morbosa curiosità del popolo bue.

Il gioco è fatto: trasgressione in carta patinata riveduta un tanto al kg come fosse porchetta cotta a legna. Ed onestamente, lo dico con sincerità, è un peccato che i quattro ragazzi non abbiano saputo pretendere di fare la propria strada, magari meno veloce ed economicamente gratificante, ma forse più solida ed appagante nel lungo periodo: i quattro non suonano male e con il tempo sarebbero potute diventare una delle poche band capaci di fare un rock di buon livello. Così, resteranno negli annali per quel pezzo sanremese sporcato dalle ombre di un plagio, per cui l’orchestra dei pennivendoli di regime ha inventato la penosa supercazzole del ‘plagio involontario’.
Ma era proprio necessario? Il fatto è che i Maneskin non sono più rock e trasgressione, perché forse non lo sono mai stati: essi sono semplicemente un prodotto in cui la finta trasgressione è parte integrante del pacchetto ed in cui l’idea musicale si adagia fra uno scontato ‘urla e picchia duro’ e qualche ballata animata da un pathos appena appena più intenso di quello che si ritrova nella Vispa Teresa. L’ispirazione delle grandi ballate che hanno fatto la storia del rock, tipo Rain Song o Stairway to heaven, non passa di qui e non ci arriva neppure vicino. Alla fine, mi resta un sogno: che al prossimo collegamento streaming lo sbiadito Iggy Pop si dematerializzi ed al suo posto appaia un Johnny Rotten incazzato come nei suoi giorni migliori, per dire ai quattro giovanotti travolti dal glitter e dal clamoroso successo che possono ancora salvarsi, a patto di ribellarsi, ma questa volta sul serio, e sbattere in faccia a tutti che quando il rock viene inglobato nel main stream e nei prodotti da vendere a peso il rock ha perso. Per dirla con una canzonetta di qualche tempo fa, Fiorello non è Robert Plant, ma l’industria della musica leggera, in un mondo di analfabeti musicali, guadagna con il talent show ed il karaoke. E quando rifletto su questo, rivaluto persino quel Mino Reitano, musicista triste ma onesto, che cantò con i Beatles ma non se ne accorse.
S. Del Giudice