Qualcosa sta cambiando. O meglio è già cambiato. La musica rappata e trappata, quella delle rime strascicate e sdrucciole fra finta trasgressione e autotune da grandi magazzini, è ormai roba vecchia, giusto un jingle pubblicitario da mandare in sottofondo ad uno spot di smartphone ricondizionati.

Nell’aria c’è altro, c’è la voce del disagio, il male di vivere in una società dell’opulenza mancata che non riesce più a giustificare i suoi fallimenti e le sue promesse tradite.
Qualcosa sta cambiando ma non cambia che la critica ad un certo tipo di società dei consumi degli anni 70, il grido di malessere viene dall’Inghilterra, dalle garage band nate nelle periferie industriali. Ovviamente, ci sono le debite differenze, nel senso che le raffinate argomentazioni di Peter Gabriel o di Ian Anderson hanno lasciato il posto ad una critica cruda, meno colta e meno articolata, filtrata attraverso i pori della rivoluzione punk e del rock indipendente. Ma quello che è più interessante è il salto generazionale che ha tolto dalla prima fila i ragazzi imberbi dalla chitarra facile ed ha portato alla ribalta musicisti segnati dalla vita e dall’appartenenza ad una classe lavoratrice ustionata dalle logiche del capitalismo globalizzato.

È, per capirsi, il fenomeno che spiega il linguaggio espressivo di gruppi come gli Idles, finalmente esplosi e gratificati da un successo che è di pubblico e di critica, ma che si basa su di un sound asciutto, cattivo, e di canzoni che raccontano la vita senza troppi giri di parole. Ed è il successo di un gruppo il cui cantante potrebbe essere tranquillamente l’idraulico sotto casa o il ragazzo che guida il furgone della lavanderia: è la voce della realtà, del tempo che viviamo, di colori ingrigiti di smog e di disagio, ma soprattutto di grida di indignazione che hanno sostituito gli effetti speciali.

Con loro e dietro di loro (a proposito: il video del loro hit “Grounds” è tanto profondo quanto asciutto e ruvido), c’è un vero cambiamento nel modo contemporaneo di fare musica, qualcosa che si riconcilia con il senso stesso del rock e che rivaluta l’esperienza di tutti quei gruppi underground che hanno continuato a cercare e sperimentare quando per tutti, drogati di trap, il loro discorso musicale era irrimediabilmente confinato l’equivoco è chiarito e tutto torna al suo posto.
Qualcosa sta cambiando perché alla fine, ognuno di noi ha un “I hate” scritto sotto la pelle, un moto di rabbia per le cose come dovevano essere e come in effetti sono, ma questo acquista un senso solo quando decidi di smettere di fingere di essere buono e felice ad ogni costo.
Serve verità, serve realtà e serve il coraggio di ascoltare chi urla il proprio disagio. Quel disagio che ci salva, perché ci dice che siamo ancora umani nonostante tutto.
I hate.