Pubblico oggi l’intervista a Bekim Spahija, attore promettente di cinema e teatro che si racconta e ci racconta il suo paese di origine. L’intervista è a cura di Sara Pellegrini.
Era il giorno della prova costume per la “Carmen” e col senno di poi mi fa sorridere il pensiero che il primo cambio provato sia stato una divisa da soldato. Le maniche della giacca erano corte, i pantaloni larghi, rotti in più punti. Sembrava che la guerra gli fosse passata sopra e avesse lasciato i suoi segni indelebili. Come sull’Albania. Terra natale di Bekim Spahija.
Quale è stato il tuo percorso fino ad oggi?
E’ stato un percorso fatto di moltissimi incontri utili per una costante crescita. Ho preso coscienza dei miei punti forti e deboli su cui lavorare. Ho iniziato apprendendo le basi del teatro e frequentando laboratori specifici in giro per l’Italia. Ho fatto molta gavetta e credo che sia stato soprattutto il lavoro sul campo a darmi preziosi insegnamenti.
Il bello di questo lavoro è che tutto è in continuo movimento, non c’è mai occasione di dire “è fatta”. Recitare a teatro è sempre qualcosa di magico per le energie che sprigiona, tuttavia ho sempre nutrito un grande amore per il cinema perché più vicino alla mia idea di verità; Infatti, parallelamente ho frequentato workshop di recitazione cinematografica stimolanti, come quello diretto da Ivana Chubbuck e quello tenuto da Andrea Costantini. Guardandomi indietro, ogni esperienza è stata a suo modo preziosa, a partire da uno dei miei primi spettacoli, “Kaspar il bravo soldato” col maestro e collega Massimo Nicoli e diretto da Umberto Zanoletti, fino ad uno dei miei ultimi cortometraggi, “Forse Lei” scritto dalla bravissima Alessandra Salvoldi e diretto dal promettente Alessio Osio.
Il mio percorso è un cantiere in costante costruzione, non mi voglio ritenere soddisfatto perché mi sono prefissato molti obiettivi da raggiungere: il meglio deve ancora arrivare.
“Kaspar il bravo soldato”. Quando ho letto questo titolo mi ha fatto quasi sorridere (amaramente) l’accostamento di un aggettivo positivo a un mestiere che alla fine non lo è propriamente fino in fondo. Raccontaci Kaspar e il suo rapporto con la guerra. Quanto c’è di lui in te e viceversa?
Kaspar è il migliore dei soldati, è il primo della classe, ha delle regole e le rispetta sempre. Una di queste regole è obbedire sempre agli ordini, è un soldatino modello. È l’inizio di un percorso verso la presa di coscienza di sé, in cui le sue regole crollano piano piano lasciando spazio all’affetto, ai sentimenti, all’irrazionale, alla disobbedienza. Sono molto affezionato a questo personaggio.
Quando iniziai a lavorarci, ricordo che non ero mai contento del risultato. Lentamente poi le cose iniziarono a quadrarmi e finalmente compresi l’essenza di Kaspar: Kaspar è umano, capisce che la testardaggine non porta a nulla se non alla solitudine e infatti decide di cambiare. Mi accorsi che mi assomigliava più di quanto potessi immaginare; Come lui avevo la leggera tendenza a fissarmi sulle mie idee, ora come Kaspar ho capito che bisogna concedersi di cambiarle e dare sempre una possibilità a ciò che viene da fuori. Il Kaspar iniziale rappresenta in qualche modo tutti noi quando ci portiamo le nostre cieche convinzioni per anni, pur sapendole sbagliate o controproducenti.
Hai voluto sempre diventare un attore? Com’è nata questa passione? Qual è stato il ruolo della tua famiglia in questa scelta e come si rapportano adesso al tuo lavoro?
Devo ammettere che non è stato un percorso lineare, non ho sempre voluto fare l’attore, non era un’idea chiara in testa. Da piccolo volevo fare lo scienziato, più precisamente “volevo fare Einstein”; alla tv avevo capito che gli scienziati la sapevano lunga. Crescendo mi son accorto di voler fare prima il calciatore, poi il musicista, il cantante, il pilota, tutto praticamente. Mi incuriosivano tutti i lavori e tutte le vite.
Essere attore credo sia nato dall’esigenza di sopravvivere alla morte e non limitarmi a vivere una vita sola.
Quando recito mi espongo, gioisco, non mi vergogno, gioco, piango, mi diverto e cambio, muto e nulla è per sempre ed è bellissimo quando è così, perché cambiare è quello che davvero ci tiene in vita. La mia famiglia è stata spettatrice di questa scelta, mi hanno visto entrare in questo mondo in punta di piedi, ma non pensavano che i piedi li avrei puntati. Ora mi sostengono sempre in ogni progetto. Sono inconsapevolmente presenti quasi in tutti i personaggi, sono la mia principale materia di studio insieme alle persone che mi circondano.
Nella “Trilogia dell’appartamento” di Roman Polanski si demistifica il concetto di casa rivelando un luogo misterioso, ambiguo, estraneo, origine di molte delle paure e delle turbe che animano la mente umana. Qual è il tuo concetto di casa e com’è cambiato negli anni anche a causa degli spostamenti che un attore è quasi obbligato a fare?
Ho cominciato a spostarmi quando avevo 7 anni, lasciando l’Albania per venire in Italia. Ho poi cambiato tantissime abitazioni, dal sud al nord. Con il lavoro dell’attore ho continuato questa vita nomade, anche se il mio campo base rimane Bergamo, dove ho la mia famiglia. Tutti questi spostamenti mi hanno portato a ridefinire il concetto di casa in maniera più astratta. Se dovessi darne una definizione direi che “casa” per me è ciò che per Lucio Dalla era Piazza Grande, cioè un posto dove ritagliare del tempo per me, senza giudizi, dove fare il punto della situazione e per capire in che direzione sto andando. Ogni tanto mi chiedono dove mi senta più a casa, se in Albania o in Italia. Col tempo ho maturato l’idea che, fondamentalmente, “casa” è dove ci si sente meglio, e non è detto che ci si senta bene in un solo posto.
Dalla ha raccontato introducendo “Henna” in concerto, che la canzone è stata scritta mentre sulla sua barca, in mezzo all’adriatico, fu svegliato dal boato degli aerei che andavano a bombardare la Jugoslavia. Un brano sincero contro la guerra, un invito a piantarla col sangue e a dedicarsi solo all’amore. Tu hai recitato questo brano con un tono quasi opposto alla melodia della canzone. Come hai costruito questo personaggio e perché la scelta di questa particolare linea attoriale?
Gli artisti che seguo e a cui mi ispiro hanno solitamente due qualità correlate che mettono nei loro lavori e cioè sensibilità ed ironia. Lucio Dalla è uno di questi e Henna (in lingua albanese vuol dire “Luna”) è un lavoro di ironia e sensibilità. Immaginiamo un soldato che va dal comandante a spiegare, come si fa ad un bambino, l’insensatezza della buerra in corso. Fa sorridere, ma fa anche commuovere scoprire nelle sue parole una grande verità: quanto potremmo farci del bene mettendo nella vita l’impegno che mettiamo nella guerra.
Decisi di reinterpretare il pezzo dopo gli attentati terroristici del 2015, sentivo di dover dire qualcosa a modo mio. Così, con Giovanni Cartney, un amico esperto di audio e video, registrammo il monologo e lo pubblicammo.
Il lavoro fu una facile conseguenza di un intenzione immediata che sentivo bruciare dentro quei giorni. La guerra, a cui fa riferimento il testo, l’ho vissuta anche io, da piccolo. Ricordo gli aerei della Nato che passavano a pochi metri sopra casa mia. In quel periodo ospitammo molti profughi kosovari, tra cui numerosi ragazzi rimasti orfani a causa del conflitto.
Quando ad un italiano si nomina l’Albania, la prima cosa che viene in mente è l’emergenza sbarchi degli anni 90. Credo e sono sicura che non sia solo questo. Un paese che di certo ha sofferto sotto una dittatura impermeabile alla libertà di espressione. Ma anche la culla di un popolo ricco di tradizioni, di storia, di arte e cultura. Raccontaci l’Albania vista con i tuoi occhi e secondo te cosa dovrebbe essere fatto concretamente sul fronte teatrale oggi!
L’Albania per me è orgoglio e fierezza. Sono due aggettivi che si addicono bene al popolo albanese.
Shqiperia (“terra delle aquile” in lingua albanese) è sempre stata una terra molto desiderata, e quindi anche teatro di numerosi conflitti; gli intellettuali hanno sempre dovuto combattere il tiranno per conquistarsi la libertà di posare l’arma per impugnare la penna. Tutto questo ha forgiato il popolo albanese che ne ha fatto esperienza e porta con orgoglio e fierezza le cicatrici che gli ricordano di non sottomettersi a nessuno. L’Albania però è anche ospitalità e tolleranza. In Albania convivono pacificamente tre grosse religioni: cattolici, ortodossi e mussulmani. Il popolo albanese è capace di darti tutto, è molto generoso. Ricordo che, in Albania, quando arrivava un ospite a casa nostra gli si cedeva uno dei nostri letti per farlo sentire comodo.
A livello di arte e cultura, Tirana convoglia la maggior parte delle forze. Mi rammarica però osservare che in tutto il Paese non ci sia una vera e consistente produzione cinematografica interna, o perlomeno è assurdo constatare che durante il comunismo si producessero più film di ora. Il teatro sopravvive ancora, ma fa fatica. Non ho ancora avuto la possibilità di lavorare nella mia terra natia, ma mi auguro che presto succeda; c’è già del movimento tra i miei connazionali attori, registi e produttori e io voglio esserci.
Nel mio piccolo, di recente ho pubblicato un video del mio primo monologo in lingua albanese: un poema del poeta Fan Noli che ripercorre alcune fasi della storia del popolo illirico.
Uno fra i maggiori esponenti della letteratura albanese contemporanea è di sicuro Ismail Kadarè. I suoi libri ruotano attorno alla questione sociale albanese descrivendo spesso didascalicamente le tradizioni e il modo di pensare di un popolo che personalmente conosco poco. Aprile spezzato per esempio si occupa del Kanun e del problema delle faide. Di cosa stiamo parlando? Sono cose relegate in un passato lontano o sono ancora presenti e vive nella società attuale albanese?
Leggere i libri di Kadarè ti permette di conoscere l’Albania, gli albanesi e le loro aspirazioni. In “Aprile spezzato” si narra della legge non scritta del Kanun e delle faide che quest’ultima provocava e che purtroppo, anche se in misura minore, tutt’ora provoca.
Si dice che inizialmente (intorno al 1500) il codice avesse una forma scritta, successivamente venne tramandato in forma orale; si instaurò e resistette soprattutto nelle terre più ostili e montanare nel nord dell’Albania; durante il comunismo venne contrastato dal dittatore Enver Hoxha; una volta caduto il regime il codice riapparve a guidare la vita giuridica di alcune zone settentrionali fino ad oggi; La sua funzione era quella di regolare controversie di diverso tipo dando alle persone diritti uguali.
Tra i molti altri ambiti della vita su cui si esprimeva in grande dettaglio, il codice fissava in maniera rigorosa il dovere di vendicare l’uccisione di consanguinei, colpendo i parenti maschi dell’assassino fino al terzo grado di parentela. Invece di impaurire le persone a non azzardarsi a commettere omicidi, le vendette sono sfociate al contrario in uccisioni a catena, di generazione in generazione. È un argomento che mi tocca da vicino purtroppo: Genci, mio cugino, aveva 18 anni quando, durante la leva militare, fu ucciso per errore da un suo compagno d’armi; fu chiesto a mio zio se volesse vendicare la morte. La sua fu una scelta di un uomo di grande intelligenza. Andò controcorrente e si rifiutò, portandosi sulle spalle la perdita del primogenito. È una storia che un giorno spero di raccontare dignitosamente o in teatro o per immagini video.
Tu sei molto giovane e i libri di Kadarè parlano di una società e una realtà per noi anacronistica. Qual è il tuo rapporto con le tradizioni e come queste si sposano con la tua vita ormai radicata in Italia?
Vivo le tradizioni come una grande ricchezza, come qualcosa che mi valorizza. Ho acquisito negli anni la capacità di rapportarmi con intelligenza e rispetto alla cultura italiana e albanese. Sono il risultato di due Paesi che mi hanno fatto da genitori, e come tali li rispetto, li ringrazio, cerco di prendere quello che di buono hanno da insegnarmi e ne faccio tesoro. Ogni volta che torno in Albania scopro sempre delle cose o molto spesso mi trovo a chiedere spiegazioni di alcune usanze che non avevo mai approfondito. Succede la stessa cosa in Italia, pur avendola vissuta di più. Da una parte il Belpaese mi ha fatto incontrare l’arte e me ne fatto innamorare. Dall’altra l’Albania mi ha dato i valori della campagna albanese. Da lì provengono gli insegnamenti di mia madre: il rispetto e la pietà per gli altri, il senso del pudore e il rapportarmi agli altri con gentilezza, ma senza mai consentire di farmi mettere i piedi in testa.
Un progetto ambizioso da realizzare
Sono una persona molto propositiva. Ho sempre tante idee e progetti che vorrei realizzare, ma succede spesso che le mie idee si scontrino con la realtà e finisca così per accantonarle. Il mio sogno è di fare un lungometraggio ambientato tra Italia e Albania, attingendo dalla mia esperienza. Credo di avere tante cose da raccontare: la decisione di partire per l’Italia, la mia inconsapevolezza, il viaggio in mare, le attese, la confusione, l’essere straniero, le case cambiate fino ad oggi. Ma anche la storia di Artan, il mio migliore amico d’infanzia, che a 15 anni parte con gli amici coetanei per la Grecia a piedi, senza un soldo, prendendo bastonate dalla polizia greca, riprovandoci e.. beh chissà se troverò modo di raccontarle! Non so se mai si farà un progetto del genere, ma sarebbe bello che la sceneggiatura me la scrivesse una mia cara collega attrice, regista e sceneggiatrice, Alessandra Salvoldi, ha una scrittura molto sensibile.
Che canzone sceglieresti da colonna sonora per accompagnare la lettura di questa intervista e perché?
Amo la musica, di ogni genere, perché credo che ovunque ci sia un po’ di dignità. Senza musica alcuni dialoghi o monologhi che amiamo non sarebbero gli stessi. Per questa intervista scelgo “Djelem Djelem”, la versione di Barcelona Gipsy Klezmer Orchestra. La canzone è contenuta in “Skupljaci perja” (in italiano “Ho incontrato anche zingari felici”), film di Petrovic. Piccola curiosità: Il protagonista del film è Bekim Fehmiu, l’attore albanese da cui mia madre prese ispirazione per il mio nome. Questa canzone è l’inno degli zingari, dei nomadi. I suoni sono tipicamente balcanici e le parole inneggiano alla libertà.
Ciò che non conosciamo ci spaventa. Ci incuriosisce ma ci spaventa. Perché? Perché non conoscendola non sappiamo come gestirla, non ne abbiamo il controllo. Controllo. E poi per controllare cosa?
Non conoscevo Bekim e non sapevo nulla dell’Albania, tranne le poche notizie che passano al telegiornale. In due settimane mi si è aperto un mondo, diverso, ricco, su cui non smetterò di documentarmi. Ho avuto l’opportunità di conoscere una persona alla quale brillano gli occhi quando parla delle sue origini, dalla grande cultura e dal grande rispetto per la vita e per i viventi. Non capisco chi si priva di questa bellezza. Del conoscere, dello scoprire, del confronto. Trovo stupido chi costruisce barriere e si sente padrone di un territorio di cui è solo ospite.
Il mondo non ha proprietari. Siamo tutti in perenne passaggio nella sala d’aspetto di una stazione. “Io credo che è l’amore, l’amore che ci salverà”. da “Henna” di Lucio Dalla
Più info su Bekim Spahija
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Link E-Talenta: https://www.e-talenta.eu/members/profile/bekim-spahija
Link Forse Lei: https://vimeo.com/251057064
Link Overplace: https://vimeo.com/403688085
Link monologo albanese: https://www.youtube.com/watch?v=JaStJ1q_9vA&t=10s
Link Showreel: https://vimeo.com/bekimspahija