Molto di più. Oltre l’abito, oltre il colore o la forma. Difficile da definire. L’universo della costumista è impossibile da inserire all’interno di una cartella se non se ne indossano i panni. Un mondo fatto di emozioni quello di Chiara Ferrantini, costumista di Baby per Netflix e de “Il Commissario Montalbano”. Una galassia fatta di ricordi luccicanti che Chiara ha voluto condividere con noi in quest’intervista.
Qual’è stata l’esperienza della tua vita che ti ha fatto capire che questa sarebbe stata la tua strada?
Posso dire con certezza che fin da piccola le emozioni che provavo nel vedere i film al cinema mi facevano immaginare di voler far parte della costruzione di quei personaggi cosi vivi e veri. Per me, che vengo da una città dell’Umbra, sarebbe stato un sogno nel cassetto perché non avevo idea di come arrivare a realizzarlo.
Con in tasca i miei film del cuore, mi sono iscritta ad Architettura frequentando anche una scuola quadriennale di moda e costume (lo IED). Ma più andavo avanti, più capivo che la mia strada non era quella della designer di moda o dell’architetto. Continuai a fare piccole cose in teatro o per spettacoli in teatrini off, fino al mio primo film, “Fate come noi” di Francesco Apolloni dove recitava Pupella Maggio (ormai quasi novantenne) che mi fece innamorare definitivamente di questo lavoro. Pupella era una donna di teatro prima che di cinema, e a noi, ragazzi alle prime armi, regalava ogni giorno, sia sul set, che nelle pause, il fuoco che alimentava la sua passione e la sua ragione di vita. Era perfetta in quel piccolo film indipendente. Credo che sapesse che il suo scopo principale sarebbe stato quello di farmi innamorare del mio mestiere.

Qual’è l’aspetto caratteriale più importante per fare la costumista? Guardando alla Chiara di vent’anni fa in cosa ti vedi cambiata?
Essere visionari, avere il coraggio delle proprie idee e seguire l’istinto. Mettersi in ascolto. Trasformare ed interpretare la storia che verrà rappresentata. Un film è come un concerto: ogni elemento farà si che l’opera diventi armonia. So di parlare per massimi sistemi ma quando avviene, lo spettatore godrà per intero la visione, e ogni tanto succede davvero. Il tutto condito con un’enorme dose di dedizione al lavoro. Vent’anni fa sicuramente la mia esperienza non era quella di oggi. Se guardo indietro vedo una ragazza più insicura e più intransigente per paura di sbagliare.
Qual’è la figura storica femminile che ti piacerebbe vestire in un film?
Elisabetta I d’ Inghilterra potrebbe essere una bella sfida. Una donna unica che ha cambiato la storia di un paese facendone una potenza mondiale.
Immaginiamo come fosse importante e simbolico ogni piccolo particolare del suo vestiario. Come dovesse apparire agli occhi esterni non una donna, ma la reincarnazione della Nazione stessa.
La ricerca storica sarebbe fondamentale per reinterpretare la complessità del personaggio, studiando dipinti e documenti dell’epoca, per poi stravolgerla in una visione personale.
Ma ho fatto solo un esempio perché ,se mi metto a pensare, ci sarebbero mille eroine che vorrei vestire, anzi userò il termine “interpretare”. Dalla più romantica alla più spietata, proiettandomi nel passato e nel futuro.

Negli anni ti sei trovata a vestire vari tipi di donna. Possiamo citare “Emma” e Ludovica di “Baby”, le veneri de “Il Paradiso delle Signore”, la marchesina ‘Nto ‘Nto de “La stagione della caccia” e altre ancora. Il costume come mezzo di informazione della condizione della donna nella storia. Qual è il capo d’abbigliamento che identifica ognuno di questi tre personaggi e di conseguenza anche un’epoca e la sua evoluzione?
Quando ho letto i copioni di Baby in prima stagione ho capito che dovevo descrivere un mondo reale, fatto di luci e ombre, di innocenza e malizia, ma totalmente contemporaneo.
Un mondo di genitori che pagano le scuole private ai propri figli, dove tutti devono indossare la divisa (che in questo caso è uno status) senza preoccuparsi di come escono la sera o di quello che fanno.
La divisa come segno di appartenenza, quella del liceo Collodi, con le calze blu e la gonna a pieghe.
La divisa che sembra metterle al riparo dalla seconda vita che iniziano per gioco e che le porterà fuori dall’adolescenza in maniera traumatica.
Le Ragazze del “Paradiso delle Signore” negli anni ‘50 ambiscono alla divisa del grande magazzino per emanciparsi e rendersi indipendenti economicamente in un’Italia uscita da poco dalla guerra.
Finalmente le “Veneri” hanno un ruolo non solo nella società ma diventano riconoscibili e desiderabili attraverso l’uniforme che tante sognano.
La remissiva ‘Nto ‘Nto del romanzo di Camilleri dopo un’infanzia felice e giocosa, alla morte del Nonno indossa per la prima volta l’abito nero, e via via alla morte di tutti i familiari diventerà la sua divisa per sempre.
Vestirà il lutto come un soldato che affronta il nemico.
La divisa come denominatore comune, come una maschera che viaggia attraverso epoche e storie diverse, per emanciparsi, per omologarsi, per difendersi.


Nella tua carriera ha avuto il piacere di conoscere due grandi uomini: Andrea Camilleri e Claudio Caligari rispettivamente per “Il Commissario Montalbano” e per “Non essere cattivo”. Che ricordo hai di questi due uomini e di questi due progetti?
Porterò sempre nel cuore 10 anni del Commissario Montalbano, Camilleri e Alberto Sironi che ha sempre curato la regia. Li cito perché ci hanno lasciato mentre giravamo l’ultima stagione della serie. Ho imparato molto. Entrando in punta di piedi in un mondo così articolato e unico. Amando così profondamente la Sicilia e l’universo sospeso dei racconti così magistralmente recitati da uno stuolo di attori bravissimi ed unici, primo fra tutti, Luca Zingaretti.
Andrea Camilleri era un cantastorie unico e riesco ancora a sentire la sua inconfondibile voce che mi diceva che io ero sincera come i miei capelli.
Ho una testa voluminosa piena ricci, ma quando l’ho conosciuto era già cieco.
Mi disse che aveva imparato a capire le persone, a sentire la loro essenza. Sono onorata di aver fatto parte del suo mondo.

Un giorno nel 2015 mi mandarono un copione. Quando apri il file vidi che il film era firmato da Claudio Caligari.
Avrei avuto un incontro con lui il giorno seguente. Mi passarono davanti agli occhi le immagini culto di Amore Tossico e dell’ Odore della Notte. Così andai all’appuntamento disarmata, pronta ad ascoltarlo.
E invece fu lui ad ascoltarmi. Parlai a lungo di come nel corso degli anni, nella moda si usino colori piuttosto che altri, delle forme, dei materiali. Di film e di atmosfere.
Claudio era un intellettuale, un uomo coltissimo, con una curiosità infinita che gli permetteva di esplorare la vita che amava più di ogni cosa. Ho vissuto il dolore e la gioia di poter fare l’ultimo pezzo di strada con lui. Ci ha regalato tante cose, non ultima la sua integrità.
Un libro e un film che ti hanno in qualche modo cambiato la vita per quello che ti hanno mostrato. Un regista e un attore (o attrice) del passato con cui ti sarebbe piaciuto lavorare.
I film di Fellini, e tre musical totalmente anni 70 che sono “Jesus Christ Superstar”, “Tommy”, e “Rocky horror picture show”. Mi hanno aperto la strada per guardare con occhi diversi il mondo circostante. E i film francesi. Uno su tutti, i 400 colpi. De Sica, Rossellini, Petri, Bertolucci.
Libri tanti. Ogni età ha avuto il suo libro del cuore. Mio padre mi leggeva dei brani di Karen Blixen, Memorie di Adriano, il Vangelo, Papillon, e mille volte, perchè mi piaceva tanto, un libro di un esploratore che percorse il rio delle Amazzoni agli inizi del secolo scorso, di cui non ricordo il nome. Cosi, io incuriosita, andavo a prenderli per leggerli tutti. Passai un’infanzia a viaggiare senza muovermi da casa. Ma imparai ad usare la fantasia e ad amare la lettura.
Regista Fellini, attore Gian Maria Volontè, anche se io guardo sempre avanti e sono felice di lavorare con giovani come Andrea De Sica o Letizia Lamartire e con giovani attori di cui un giorno magari si parlerà tanto.


“La bellezza del somaro”: una commedia sul rapporto fra giovinezza e vecchiaia che ti ha dato la possibilità di poter lavorare con Sergio Castellitto, Margaret Mazzantini, Enzo Jannacci e Laura Morante. Che ricordo hai di questo film e qual’è il tuo rapporto con il tempo che passa?
Film girato in Val D’Orcia, ogni mattina era un piacere raggiungere il set. Un film divertente e attualissimo, con attori bravissimi e in più Iannacci che era un uomo intelligentissimo e ironico, un mito!
Il suo personaggio (Armando, detto “Il presidente”) alla fine del film dice che si comincia ad invecchiare quando si inizia a somigliare ai propri genitori. Nessuno di noi, sono sicura, dirà mai : “Che bello sto invecchiando!”. Ma in questa epoca piena di facce di plastica e anime vecchie mascherate da adolescenti, cerco di vivere sempre con entusiasmo e consapevolezza.
“L’uomo fiammifero” è un film coraggioso e denso di magia. L’ostacolo principale, come dichiarato anche dal regista Marco Chiarini. è stato il budget. Ma questo non ha fermato la determinazione della squadra che è riuscita a creare un prodotto meraviglioso.Che ricordo hai di quest’avventura? Sognare è anacronistico o rappresenta ancora una via verso la salvezza?
“L’uomo Fiammifero” è stato una delle mie prime esperienze lavorative. Ricordo che c’era un grande senso di libertà e di gioia. Marco Chiarini ,nei rari momenti di pausa, suonava la fisarmonica nell’aia antistante la grande casa dove giravamo. Quasi tutti i costumi del film erano inventati riadattando vecchie cose prese in giro per mercati e (non scherzo) negli armadi di coloro che si mettevano a disposizione. E fu bellissimo!
Tanta poesia, nella storia e nelle mani di Marco, spero di seguirlo ancora nel suo fantastico mondo. Il cinema serve a far sognare, a distaccarsi dalla realtà, quindi si, per me è una via di salvezza per lo spirito e la conoscenza.


E’ stato un anno particolare che ci ha costretti a fare i conti con noi stessi e i nostri mostri per riformulare il futuro. Il mondo della cultura ha subito un duro colpo ma sono fiduciosa in una sua rinascita. Come un bruco che diventa farfalla. Cosa porterai con te di questo anno?
Di questo anno porterò con me la pratica della tolleranza e della pazienza. C’è un tempo per muoversi e uno per stare fermi. Posti che sembravano vicinissimi ora sono quasi irraggiungibili. Che siamo poca cosa al confronto degli eventi. Che, mai come in questo momento, non possiamo fare come se tutto fosse normale.
A livello lavorativo, dopo i primi mesi, il mondo del cinema e della tv ha organizzato una rete di protezione e monitoraggio che ci permette di lavorare a ritmo pieno, con tantissime attenzioni.
Così non è per i lavoratori degli spettacoli dal vivo e del teatro che devono essere aiutati dallo Stato adesso e da noi quando sarà possibile tornare ad essere pubblico.
“Dicono che c’è un tempo per seminare, e uno più lungo per aspettare. Io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare”
Quest’anno ci ha dato la grande possibilità di incontrare i nostri sogni e decidere se per noi fossero davvero importanti. Ci ha dato consapevolezza. Ci ha dato tempo. Chiara mi ha dato la prova che se credi fortemente nelle tue capacità il tuo sogno trova il modo, prima o poi, di incontrarti. Sognare non è anacronistico. Sognare è l’unica cosa di cui niente e nessuno può privarci.
Sara, UAU PEOPLE
Trovi info su Chiara Ferrantini su
https://www.imdb.com/name/nm1065228/
https://www.filmitalia.org/p.aspx?t=filmography&si=7&l=it&did=7700